Artisti Carnici: Stefano Marchi artista perplesso e irresoluto al bivio della maturita’

di Ermes Dorigo.

Verso la metà degli anni ’90 ebbi, se così posso dire, il merito di ‘lanciare’due giovani carnici, in tempi in cui le esposizioni erano dedicate soprattutto ai ‘canonici’ maestri del figurativo, meglio se floreali o paesaggisti: l’informale e la pittura contemporanea parevano proprio non esistere. Tale presenza ‘giovanile’ la rinforzai successivamente con una provocatoria mostra, tanto che un quotidiano locale s’affrettò a telefonarmi, per capire se per caso m’avesse dato di volta il cervello, tenutasi nel prestigioso palazzo Frisacco dal titolo Carnia New Art. Uno dei due giovani era Stefano Marchi, nato a  Tolmezzo nel 1964,  oggi non più crisalide, ma farfalla dal volo, se me lo concede, poco determinato, un po’ come se fosse intimidito e disilluso, irresoluto, quasi lo bloccasse un timore interno di ‘liberare’ completamente se stesso, di ‘superarsi’; intanto, con esposizioni personali e collettive, continua a volare, ma ondeggiando sempre, mi pare, tra il prima e il dopo, tra un morboso, quasi, attaccamento al sé primigenio e il desiderio di sfidare l’ignoto e di percorrere vie nuove, forse ancora da lui solo intraviste, ma che gli suscitano una sorta di inquietudine regressiva, pur continuando a sperimentare e a mettersi in discussione. In occasione della prima mostra, intitolata Lo sguardo pulsionale ovvero Le visioni dell’inconscio, lo definivo “selvaggio” in quanto individuavo nelle sue grandi tele, come padri spirituali, soprattutto Baselitz e Kiefer considerati, appunto, padri dei “nuovi selvaggi”, che non si esprimono verso il mondo, ma in quanto mondo, in quanto soggetti perduti che si cerca­no, per un bisogno insopprimibile di vita; che si cercano proprio in quanto corporalità, non ideologica­mente e programmaticamente: oggettivano sulle tela associazioni, ricordi, frammenti di esperienza, per cui il quadro si pone come entità‑altra rispetto all’artefice: l’opera fa il suo autore, nel senso che egli si identifica e si costruisce, interiormente e come essere socia­le, in relazione a quanto gli dice l’o­pera, la forma percettibile della lin­gua dell’inconscio. Stefano,  gestuale e meno legato alla convenzione artistica, ti trascina verso suoi ‘eventi” col piacere estetico della pennellata forte, ‘grossolana’ come quella del suo maestro Baselitz, degli accostamenti e contrasti ‘esagerati’ dei colori, dell’energia del movimento che agita anche ciò che solitamente è statico, come i volti ritratti. La sua è la figurazione di ciò che non colpisce lo sguardo, ma che si vede solo con occhio interiore. Troviamo nelle sue tele una grande intensità di astrazione espressiva ed emozionale ed un vibrante edonismo dei colori. A lui non interessa il dettaglio (né, quindi, l’accuratezza dell’esecuzione) ma l’impeto equilibrato dell’insieme, ottenuto con una sorta di sregolata regola, di disordinato ordine che implode in un oggetto pittorico che si pone come entità significante in sé e per sé, con arditi squarci e movimenti prospettici, che però non creano l’illusione della profondità (il fruitore dentro il qua­dro), ma mantengono la caratteristi­ca di pittura di superficie che ‘va verso’ il fruitore e lo intriga coi suoi interrogativi.

A distanza di anni, dopo aver sperimentato ed essersi messo in discussione in numerose esposizioni personali e collettive ho voluto che fosse lui direttamente a trarre un primo bilancio della sua esperienza estetica, giunto ormai al bivio della maturità, tramite un’intervista-confessione: «Non è facile per me – dice Stefano – come artista parlare del mio lavoro. Ho sempre amato la pittura fin da ragazzino, quando mi capitavano in mano i testi di storia dell’arte di mio fratello maggiore, che all’epoca era studente universitario. Ho continuato poi la mia ricerca personale immergendomi in tutto ciò che era arte, in una sorta di studio autodidatta, visitando mostre più o meno importanti a livello mediatico e conoscendo artisti di vario livello.  Sono stato molto attratto dalle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta; tramite la collaborazione e l’amicizia con il collezionista Egidio Marzona, ho avuto la fortuna di conoscere artisti come Vito Acconci, Luciano Fabro, Mario e Marisa Merz e Robert Barry, che ho aiutato nel porre in opera un’installazione nella casa di Marzona nel suo parco artistico. Grazie a Marzona insieme a Ermes ho allestito la mostra, epocale per la Carnia e il Friuli,  Nonno Padre Figlio – Duchamp Andre Missoni e realizzato un buon video su di essa  e sull’Artistic Park di Villa di Verzegnis. Ma sono sempre rimasto legato in maniera forte alla pittura. Uso tele industriali di un formato medio grande, dal 100×120 in su. C’è stato un periodo in cui le tele me le costruivo, ma è durato poco. Facendo tutto da solo avevo difficoltà nel tirare la tela grezza  e poi non riuscivo a trovare facilmente chi potesse costruirmi i telai senza chiedere somme esose. Dunque tele di grande formato. Ai movimenti delle braccia occorre spazio, perciò il formato è determinante, in quanto solo un largo campo d’azione consente di viaggiare immergendosi nel quadro stesso, dipingendo fino ad esaurimento. La lezione di Pollock è fondamentale per me. Come determinanti per la mia formazione sono stati Georg Baselitz e i Nuovi Selvaggi tedeschi degli anni Ottanta, come ha ben intuito Dorigo fin dalle mie prime opere. Adoro quella violenza gestuale che genera figure, sagome, volti tumefatti, vittime. I colori che uso sono prevalentemente scuri, privi di omogeneità e appaiono opachi, sporchi e vengono colati sulla tela spesso molto diluiti e comunque senza la presenza di un disegno o di una bozza preparatoria. Non c’è tempo per la riflessione, né per la perfezione, aspetti della pittura che non mi interessano. L’azione deve essere rapida, in piena sintonia col cuore e col cervello. Il cervello ci permette di essere liberi, di concepire un’idea e al tempo stesso di evitare di rinchiuderla dentro ragionamenti tecnici che nulla hanno a che fare con l’intuito, che per me è sinonimo di creazione e quindi di arte. L’idea fugge, non resiste a lungo nella mente e quindi nessuna pausa e via con i pennelli, con le mani se è necessario, in un turbine di materia e di colori.

La mia è una pittura che definirei ‘disinvolta’, che imperversa sulla tela con violento e ampio slancio del pennello, con cromatismi a volte selvaggi ed incisivi. Ed è una sensazione indescrivibile per me ciò che appare sotto il vibrare del pennello. Tutto ciò, l’azione pittorica spaziante, gli inevitabili spruzzi di colore,  le parti della tela non dipinte, le meravigliose sbavature, mantengono il quadro finito in una condizione di provvisorietà e frammentarietà. Sento dentro di me questa passione indomabile, che mi spinge ad imbrattare tele come la belva affamata addosso alla sua preda, ma ciò nonostante sento che dal mio lavoro traspare un messaggio di amore verso la vita ed il mio prossimo, in una sorte di passaggio al di là, una specie di filtro che si interpone tra l’artista e la realtà, tra la realtà dell’artista e la realtà di chi guarda. L’interpretazione della realtà, arricchita dal nostro stato d’animo, dalle nostre sensazioni, si traduce sulla tela che diventa il passepartout per mete altrimenti irraggiungibili. Temi comuni che troviamo nel lavoro di molti artisti sono anche i miei: la negazione della guerra, la condizione umana, la libertà, la pace, la paternità, il sesso, l’amore, la poesia, la paura, ossessioni ricorrenti negli uomini, amplificate negli artisti, frutto di sedimentazioni emotive interiori o derivanti da traumi esterni, ma nella loro genesi complessa c’è un punto fermo: il quadro. Io mi riconosco nel e col quadro. Al momento nulla per me è più vero di un quadro: il pensiero che da esso scaturisce mi appare più forte, più resistente e diretto».