Auto-refenzialità, il male della nostra società

di Delio Strazzaboschi
Una recente indagine (Who’s who) ci dice che la nostra classe dirigente è prevalentemente composta da professori universitari, politici di mestiere e manager del privato, che per l’88% si tratta di uomini e con un’età media di 61 anni, che le maggiori macro-aree di nascita sono il Nord-Ovest e il Sud e che nel suo insieme ha permanenza prolungata e bassi tassi di ricambio. E ci dice anche che la classe dirigente, nel declino italiano, è forte in consenso, ma debole in competenze, perché abdica opportunisticamente alle grandi decisioni che interessano l’intero paese, per timore di alienarsi di volta in volta il consenso di singoli gruppi. Tra leader (2.000 persone), élite (6.000) e classe dirigente diffusa (17.000), sono dunque 25.000 persone (compresi spettacolo, comunicazione e sport) quelle che contano davvero in Italia. Un po’ pochini, in una nazione con oltre 60 milioni di persone, nella quale la concentrazione del potere in poche mani appare pesante ostacolo alla mobilità sociale, alla partecipazione e quindi alla democrazia. La pluralità degli interessi non comporta infatti automaticamente uguale rappresentanza. Esistono poteri dominanti: sono quelli che possiedono l’organizzazione, gli strumenti per raggiungere certi scopi atti a soddisfare determinati interessi. Lo stesso pluralismo, di per sé, non garantisce equità nella mobilità sociale e nella rappresentanza politica; più ricerche hanno evidenziato tali illusorietà. Nei fatti, le élite concentrano su sé stesse, in modo statico e auto-referenziale, la maggior parte delle risorse e dei mezzi apparentemente a disposizione dell’intera società. Oggi, il primato italiano di sfiducia dei cittadini verso le proprie istituzioni dimostra che la nostra classe dirigente è molto lontana dalla realtà vissuta, ed è per questo che nuovamente le si chiede l’impegno civico, la capacità di gestione, la riduzione del diffuso stato d’incertezza sociale, ma anche una visione del futuro e del cambiamento. In verità, il nostro paese ha davvero una classe dirigente? Più probabilmente, una costellazione infinita di centri di potere, divisi fra loro da interessi settoriali e territoriali, per cui la realtà tutta italiana si riduce a un’élite capace soltanto di amplificare i propri interessi, letteralmente a danno di quelli dello Stato. La stessa separazione dei poteri è sempre più sacrificata dalla loro ubiquità: politici in affari, imprenditori e finanzieri che sconfinano in Parlamento, pseudo-professionisti dei media, calciatori, veline in quote rosa, hanno creato un’Italia, privilegiata ed esclusiva, che vive di rendita parassitaria, ed è assai lontana dai decantati comportamenti liberali, orientati al merito e alla responsabilità sociale. Ma non solo manca la leadership; sono ormai residuali anche gli obiettivi primi della democrazia (come il miglioramento dell’istruzione e dell’informazione) e della partecipazione civica nella società. Le disuguaglianze di ricchezza sono enormemente aumentate, i talenti sono in fuga e le classi dirigenti, che inseguono il denaro per il denaro, sono oggi le padrone della scena. La gente vorrebbe invece una classe dirigente competente, e incline alle decisioni, ma dotata di una legalità-moralità positiva, affinché in Italia governino finalmente i migliori e non i ricchi e i raccomandati. Ma non si migliora una classe dirigente senza battere l’auto-referenzialità della classe politica, che sopravvaluta i media e sottovaluta colpevolmente la partecipazione dei cittadini. Solo la cittadinanza attiva potrà farci superare questa “democrazia difettosa”, per cominciare a riformare la politica, non solo in senso elettorale, ma anche, e soprattutto, civico.

Una risposta a “Auto-refenzialità, il male della nostra società”

  1. mi viene in mente il mio super capo texano, 45 anni, due coglioni cosi’ e grande esempio.

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