Carnia: ritorno a Forni di Sopra (*), riflessioni sullo spopolamento dei paesi del giugno 1983

Carnia

di Ermes Dorigo.

“Come?! Anche lui!?” Sempre più spesso depongo la cornetta del telefono sconfortato ed amareggiato, dopo un altro annuncio di morte. Ad uno ad uno si sgretolano i mosaici dell’infanzia e dell’adolescenza e in quei vuoti, lasciati da morti conosciuti, se ne va e scompare anche una parte di me. Perché, invero, la nostra identità matura e cresce solamente con la presenza delle persone e delle cose dentro di noi. La vita degli altri in noi è quella che ci dà il senso di appartenenza ad una comunità, ad un popolo, ad una storia e attribuisce significato al nostro agire quotidiano. La presenza di una o molte persone in tante persone costituisce il tramite principale per la costruzione dei legami sociali, che ci portano al di fuori di noi stessi, della famiglia, dei clan, per vivere una più completa identità e vita collettiva. La morte recide, ad un tempo, legami personali e sociali. Essa, pertanto, non è solo un problema personale e familiare, ma sociale e collettivo.
Oggi, i vuoti sociali non vengono riempiti. Non si tratta solo del calo delle nascite.
I vivi rimuovono ed allontanano da sé il senso della morte. Così, il tessuto sociale si fa sempre più sfilacciato, bucato, sbrindellato, saltano i collegamenti e i canali di comunicazione sociale e di solidarietà, ognuno viene ricacciato dentro se stesso, nella propria solitudine, che si tenta di vincere in varie maniere: la fuga nel bere, la frenesia dell’agire per l’agire, la rincorsa consumistica, la chiusura nel ricordo, la fuga dalla storia, la ricerca della droga, la smania della ricchezza e del comando, il silenzio rancoroso, il vittimismo, l’evasione nel sogno… Un sentimento grande d’impotenza e di morte aleggia su una tale comunità, assente di parola, di comunicazione, di dialogo, di partecipazione alla vita civile. La parola, non la chiacchiera dissennata e nevrotica, è la chiave che apre la porta di noi stessi e della vita sociale; se occultiamo la chiave, rimaniamo chiusi in noi stessi e la società è sommersa di vocii borbottìi mormorii, di persone che non comunicano: tanti monologhi deliranti non fanno un dialogo. Allora, sono i vivi ad essere morti.
Accendo il registratore. Riascolto la voce di zia Maria Sinisa, da me intervistata pochi giorni prima della sua morte. La scienza e la tecnologia, se ben impiegate non a produrre armi… Ascolto e riascolto. Non mi interessa tanto quello che dice, ma la voce che racconta. Pensiamoci bene. La voce è presente, ma dice la grande assenza di lei che è morta. Non è testimonianza delle cose che dice, ma la presenza d’un vuoto che si è creato nei nostri rapporti quotidiani. E’ la presenza del passato, un confronto necessario con la nostra memoria, individuale e collettiva; o con l’assenza di tale memoria. Infatti, questa voce o ci aiuta a rinsaldare la nostra memoria e, quindi, a confrontarci con la realtà nostra odierna, oppure ci rende consapevoli che siamo senza memoria; che non siamo. Perché, una persona senza storia non vive, ma galleggia sopra se stessa e sopra le cose. Talora roca, talora affannata per l’assedio della morte, ma sempre lucida, la voce rievoca la camera di legno antico dov’era da tempo costretta e il copriletto lavorato all’uncinetto e la corona del rosario tra le dita nodose e uno sguardo chiaro ma affilato, a sondare la sincerità dei miei gesti. L’intensità del timbro della voce, padrona della storia che rievoca, infrange e manda in frantumi quotidiane ipocrisie e vessazioni e mi trasporta attraverso una vita in altre vite addietro, al padre del padre, di madre in figlio, di famiglia in famiglia, di fienagione in fienagione, d’emigrazione in emigrazione, di guerra in guerra… Ad un tratto rivivo dieci anni fa. Nell’angolo della cucina, sul letto, un piccolo corpo divorato dal male: mia nonna morente. Rannicchiata, perché la morte la riporta alla positura della nascita, stanca di lottare, ma fiera d’essere arrivata alla fine senza aver perso le origini, non mi dice niente. Mi guardò intensa, con suoi scuri occhi profondi – rimprovero? ammonimento? pena per me che restavo? -; non parlò e si volse per sempre dall’altra parte. Quello sguardo me lo portai appresso. E ritornò in seguito ogni volta che sprofondavo in una vita quotidiana senza storia. Una voce, una storia, confrontarsi coi ricordi. Con la paura della morte allontaniamo anche questi dati minimi, per timore che ci facciano capire che quello che ci circonda non è vita, ma frastuono, fuga da noi stessi, mercificazione delle persone: un grande silenzio di morte vivente. Solo la morte dà un senso alla vita.
Questa nostra società ha creato l’illusione di aver sconfitto la morte e di aver inventato l’elisir d’eterna vita. Si vive come se non si dovesse mai morire, su un piatto rettilineo, trasportati da un gigantesco tapis roulant. Ogni tanto qualcuno cade dalla scala mobile (per molti é caduta la scala mobile), ma non ce ne curiamo eppure facciamo finta di non aver visto, dimentichiamo in fretta. Abolire il pensiero; agire correre affannarsi: denaro carriera arrivare. Ma dove? C’è forse una meta quando gli altri non avanzano con noi? C’è forse vita individuale nel silenzio collettivo? Si creano poteri, interessi, privilegi e corpora-zioni di pochi sulle macerie di coloro che rimangono indietro, che non accettano un tempo senza passato e senza futuro.

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Perché, chi è senza passato è senza futuro. Quale futuro? “Niente futuro”, gridano le giovani generazioni nelle manifestazioni pacifiste contro la corsa agli armamenti.”Niente futuro!”, per chi non ha la prospettiva di un lavoro. “Niente futuro!”, per chi ha dinanzi a sé la via per una grande solitudine individuale senza società. Ripensare la storia, non perché essa sia maestra di vita, ma perché ci aiuta a formulare meglio le domande sul disumano presente e a progettare un futuro di solidarietà, comunicazione, umanità. Nel centro di Andrazza rimangono, segni d’una lacerazione, le pietre annerite e il sapore acre di dissoluzione dopo l’incendio. Un vuoto. La storia procede per salti e rotture, non è una linea retta continua ed ascendente, sulla quale salire, che ci dia sicurezza o la possibilità di un fatalistico abbandono. La storia è un atto di volontà, individuale e collettiva; il coraggio di inserirsi nella frattura e nelle contraddizioni, per superare l’assedio della morte e ricostruire l’identità di una storia che non nasconda ricuciture e strappi. Il discrimine, tra chi lavora per il futuro e chi vuole negarlo, sta nella nostra collocazione nel presente: da un lato, quelli armati di ago e filo per cucire rapporti e legami e par strapontâ scarpès, che permettano ancora un lungo cammino nel futuro; dall’altro, quelli armati di forbici, per tagliare, recidere legami e ricordi: sulla divisione di molti s’insedia il potere di pochi. Anche le collettività, un paese, nascono e muoiono, ma la morte non è mai definitiva come quella individuale. I momenti di transizione, da una identità ad una diversa ma che mantenga legami di continuità con la precedente, hanno il sapore della morte. Dipende da noi essere rapaci avvoltoi o costruttori di vita. I nostri nonni hanno costruito case in tutto il mondo: che i figli e i nipoti non sappiano più usare la cazzuola del dialogo per costruire le mura di una nuova identità del paese, che abbia il sapore del tempo, ma aperta verso il futuro? Perché, in verità, la storia non dev’essere un cappio, che strangola chi vuol vivere qui ed ora; un qualcosa che ci riporti indietro in un sogno conservatore e nella fuga dai problemi.
Con le case bruciate se n’è andato anche Nilo. Perché l’ha fatto? Solitudine? Disperazione? Bruciare il passato e il presente. Nell’atto di un folle sta forse una premonizione profetica? lo credo di sì. Ne L’albero degli zoccoli di Olmi, affresco della civiltà contadina, si vede un matto che gira di cascinale in cascinale, entra nelle case dei contadini, accolto benevolmente, mangia con loro e se ne va. L’umana solidarietà; e la follia individuale a carico della collettività. Un mondo di sentimenti, di affetti, di valori che se n’è andato. Solitudine. La legge 180, che chiude i manicomi, è una legge umana, che vorrebbe ricostruire quell’antico senso di solidarietà, dissolto e presente solo nelle favole che si raccontano ai bambini: favole, appunto, perché si sa che più non esiste e, pare, non c’è la volontà di farla rivivere. Si chiede da molte parti una revisione della 180 e il ripristino del manicomio. Chi vuole questo, che società prospetta? Quella: degli ospizi emarginanti per gli anziani, delle carceri per coloro che rifiutano il conformismo dominante, dell’anestesia della droga per i giovani senza futuro, della distruzione della speranza per i bambini, della nuova emarginazione delle donne, dell’esclusione dalla società dei portatori di handicap, della crescita di larghe fasce di nuova povertà. La condizione dei deboli rivela il grado di umanità e disumanità dell’intera società. E questa società pare avere come unico valore la produttività e il profitto, che si può ricavare dalle persone. E chi vuole “solamente” vivere? “Meglio farla finita!”, avrà pensato Nilo. “Meglio?”, ci chiediamo noi. Oppure si può vincere l’assedio di questa morte sociale?

Ermes Dorigo

(*) Chi scrive è farnese di nascita. Ogni volta che ci ritorno, trovo il paese sempre più silenzioso, con un lungo elenco di morti. In questo senso Forni può essere il simbolo dell’ abbandono e dello spopolamento dei paesi di montagna. Ma non solo. Forni è anche un pase che ha avuto un notevole sviluppo turistico. Senza entrare nel merito di tale sviluppo e senza demonizzare il turismo, resta il fallo che tale mutamento determina una crisi-morte di una identità collettiva, uno stato di anomìa, si spera transitoria. In questo senso può simboleggiare la crisi di identità dell’intero popolo friulano. Da qui, la necessità di una riflessione sulla storia, sul passato, col quale il rapporto non può che essere problematico.
(Nel testo si fa riferimento al recente incendio di Andrazza, frazione di Forni, di cui s’è abbondantemente parlalo sui giornali locali. Nilo è l’incendiario