Friuli: c’era una volta la Carnia ora viviamo in un incubo

di Paolo Medeossi.

Ci sono ancora i paesaggi, i fiumi, i torrenti, i rifugi, i boschi, le belle montagne innevate (viste alcune settimane fa nel programma tv “Linea bianca”), ma appena si scende a fondovalle atmosfere e stranezze da incubo. Esagerazioni ed enfasi da cronisti a caccia di scoop? Sarebbe riduttivo e letale ragionare così perché in gioco ci sono le sorti di un territorio complesso e strategico, non solo per i carnici. Diceva un acuto osservatore, anni fa: «Se i problemi della montagna non vengono risolti, la valanga si ingrossa e travolge tutti, anche in pianura». Adesso la valanga è enorme, oltre i livelli di guardia, e non si vedono grandi soluzioni. L’orizzonte si fa cupo e lo stillicidio delle notizie non solleva il morale, anzi. Addirittura succede che spariscano in una banca i conti correnti di ignari risparmiatori che, quando vanno a ritirare il gruzzolo, si trovano con un pugno di mosche. Scattano le indagini, la magistratura apre l’inchiesta, intanto campa cavallo. La situazione a livello giudiziario, per tempi e rallentamenti ben noti, sembra dare boccate d’ossigeno ai colpevoli più che alle vittime. D’accordo: non sono cose che succedono solo in Carnia, ma il peso di certi macigni diventa micidiale in territori fragili, vulnerabili, abitati da una popolazione con tanti anziani, più indifesi rispetto a stress e timori. Qualcuno ha detto che stiamo vivendo l’epoca delle “passioni tristi”. Definizione intelligente. C’è un malessere diffuso, una tristezza che attraversa le fasce sociali. Serpeggia un senso di impotenza e incertezza che induce a rinchiudersi, a vivere il mondo come una minaccia alla quale non si sa rispondere. Ogni tutela legale pare un miraggio, altri strumenti non esistono. Una volta si mostrava l’indignazione tutti assieme, le si dava forma visibile e voce. Ora non c’è l’urlo di protesta: si sfoga la rabbia scrivendo frasi di fuoco sui social network, poi si resta a livello virtuale ingigantendo l’impotenza, la frustrazione. Così si consolida l’idea che la roccaforte dei potenti resti inespugnabile. Forse riporteranno qualche cicatrice, qualche feritina, subiranno gli insulti, ma hanno un asso fondamentale: la smemoratezza generale. Si dimentica in fretta, troppo in fretta. Ciò che oggi fa scandalo, domani è solo un piccolo foruncolo da estirpare. E chi ha subìto il danno si arrangi. Sulla Carnia pesa maledettamente la tegola Coopca, vicenda terribile per tanti motivi, compreso quello simbolico. Si chiude una pagina gloriosa per questa terra di montagna e per lo stesso modo di sentirsi carnici. Ciò accade (visto, tra l’altro, che questo 2016 è zeppo di anniversari) proprio a 110 anni dalla nascita, avvenuta nell’aprile del 1906. La mazzata ha cancellato i piccoli capitali della gente, ha creato disoccupazione in zone dove il lavoro è manna, ma soprattutto ha seminato sfiducia in maniera irrimediabile. È lo stesso incubo che si sta verificando nel caso della Banca Popolare di Vicenza, con dimensione ancora più ampia e grave. Realtà economiche e finanziarie con le quali le famiglie avevano stabilito un rapporto di conoscenza e affidabilità a occhi chiusi, ponendosi come obiettivo non la speculazione, ma la difesa del risparmio, hanno voltato le spalle tradendo dalla sera alla mattina con cambi di scena inauditi, in un quadro dove ha fallito ogni tipo di vigilanza e controllo. E adesso c’è la fuga dalle responsabilità che darà vita a infinite schermaglie legali in un Paese con il primato europeo per lunghezza dei processi. Aver demolito, in Carnia, in Friuli e altrove, la fiducia dei risparmiatori è un fatto atroce, non solo per chi aveva i soldi alla Coopca o in banca. Abbatte un pilastro sociale su cui l’Italia è cresciuta e peserà tantissimo. La Carnia di questi tempi, gestita tra astuzie varie, ha gettato ombre anche su una sua invenzione, quella degli alberghi diffusi, idea lanciata fin dagli anni Ottanta, dopo il terremoto, da personaggi come Leonardo Zanier e Piero Gremese per dare una chance turistica ai paesi senza vederli ridursi a una sorta di “Pompei montanara”. Sappiamo cos’è invece successo attraverso le cronache di questi mesi, che alla fine alimentano il discredito anche su chi si è comportato in maniera corretta, in base a leggi di tanti anni fa, che non avevano sollevato dubbi o rimostranze. C’è chi (ecco il popolo dei risparmiatori) ha investito i soldi nel recupero di case o stavoli diroccati come atto di fede verso la propria terra e c’è chi ha agito in altri termini, sotto gli occhi di una politica indifferente, sia carnica sia regionale. Politica che dopo la grande crisi, scoppiata da nemmeno dieci anni, non si è calata con senso di umiltà e consapevolezza nel nuovo mondo. Ha continuato come sempre, allontanandosi così dai sentimenti della gente. Alla fine ci sarà certo chi, miracolato, festeggerà elezioni ottenute con un pugno di consensi, ma primo compito d’un politico, al di là della vittoria personale, dovrebbe essere in democrazia quello di riportare il popolo compatto e convinto al voto. La Carnia non è all’anno zero, ma poco sopra. Appena Enzo Cainero ridà il Giro d’Italia allo Zoncolan si accende l’entusiasmo e cresce la speranza. Uno sprazzo vitale. La scorsa estate il turismo ha regalato sorrisi, timidi forse, ma concreti. Ora però i carnici devono tornare a essere se stessi. Basta trucchi, trucchetti e cortigianerie. Per trovare qualche idea, rileggano la bella biografia che Ermes Dorigo ha dedicato a Michele Gortani (in gennaio sono passati 50 anni dalla morte, ma chi se ne è ricordato?) oppure rileggano gli Almanacchi pubblicati dal Coordinamento dei circoli culturali. Riscoprire Giorgio Ferigo diventa fondamentale. Anche lo scrittore Sergio Maldini, che non era di Tolmezzo e dintorni, visitando le vallate disse: «In Carnia c’è un popolo autonomo, cosciente, civilissimo, che vanta i pareggi dei bilanci comunali e diffida di tutto ciò che è brillante, ma effimero. E inoltre la Carnia possiede una cosa sempre rara nel nostro Paese: la serietà». Era il 1968, secoli fa. Infine ecco Leo Zanier, il poeta di Maranzanis, che scrisse: «I tromboni predicano “guai a perdere le radici”? Io dico invece che stiamo perdendo la semenza». E in una sua “storiuta” pedagogica, per bambini e non, narrò dell’orso a cui piaceva il miele e con l’acquolina in bocca attraversava le foreste seguendo un’usta zuccherina… Ogni riferimento (eccetera eccetera) è puramente casuale.

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