Friuli: quei nostri preti che parlavano come Francesco

di RENATO STROILI GURISATTI

In occasione dell’anniversario della morte di monsignor Alfredo Battisti (figura amata dai friulani anche per la sua tenace volontà di andare sempre incontro al suo popolo) qualcuno ha sollevato interessanti riflessioni circa lo stato della Chiesa friulana, che oggi sembra stenti a trovare un suo ruolo e un suo posto e, soprattutto, una sua misura culturale. Argomento non certo esauribile in breve, ma che vale la pena affrontare alla luce della straordinaria stagione aperta da Francesco. Questo New deal papale, forse, può favorire la comprensione del perché una certa realtà culturale e civile che ha vivacemente animato la Chiesa friulana fino a pochi anni fa non sia più rintracciabile nella contemporaneità, salvo realtà sempre più residuali e tollerate. Sostengo questo accostamento ragionando, in primo luogo, dei preti del Friuli. Difensori dell’identità In una terra contadina, il basso clero (parroci, vicari o cappellani) apparteneva sì (per gli studi superiori) al mondo della gente coltam ma era e restava vitalmente e inscindibilmente parte del popolo di cui parlava la lingua e di cui difendeva l’identità. Di più: di fronte all’atteggiamento della classe borghese, che disdegnava la cultura friulana, tornava logico e consequenziale che i preti ne fossero i naturali interpreti e difensori. Con conseguenze storiche fondamentali per il Friuli, sol che si pensi che il prete Giuseppe Marchetti per primo pone la questione dell’identità friulana, divenendo uno degli ispiratori dell’autonomia regionale. Erano, quindi, impastati della stessa materia del popolo, e come direbbe, appunto, Francesco, odoravano di pecora. E il loro essere preti del popolo li portava necessariamente, direi teologicamente, ad essere lontani o fuori dal potere, così che, di conseguenza, non potevano non essere in permanente dialogo conflittuale con chi affermava e rappresentava il primato dell’ordine istituzionale. Non appare, perciò, improprio sostenere l’idea che le due grandi figure di Placereani e Bellina giustifichino, per la stretta osmosi tra friulanità e cristianità, anche l’esistenza di una teologia friulana, cioé di una teologia politica o, più propriamente, di una teologia della liberazione. Essi leggevano la loro scelta sacerdotale anche e soprattutto come impegno a stimolare un soprassalto etico delle coscienze in senso cristiano e friulano. Per questo, non si potrà mai misurare l’apporto che questi preti e, di conseguenza, la Chiesa friulana da essi tenacemente sollecitata, abbiano dato al popolo friulano su ogni terreno, fino, appunto, alle grandi conquiste dell’autonomia e dell’università. Lo scisma sommerso Nel momento in cui la straordinaria figura di un Papa solleva quell’insieme di temi e visioni che furono tanti decenni fa il centro delle passioni e dell’impegno di molti nostri preti, oggi è impossibile non evidenziarne, per sola comparazione, la vistosa assenza. Sullo scenario generale, possiamo ogni giorno osservare quell’incalcolabile distanza tra le parole e i gesti di Francesco e quelli di una gerarchia formalmente ossequiosa ma sotterraneamente ostile e viene facile pensare allo «scisma sommerso» di cui parla il filosofo Pietro Prini. Sullo scenario dell’attualità compare così e con sempre maggiore intensità quel complesso rapporto ad extra e ad intra che, com’è ora posto e gestito dalle gerarchie, non potrà che generare sicure, ancorché interessanti, incomprensioni . Il teologo Giuseppe Colombo osservò acutamente che nel Sinodo del 1985 si fece un ripensamento del Vaticano II, scegliendo di privilegiare la Chiesa-comunione a danno di quella di chiesa-popolo di Dio, con il risultato che la grande intuizione di una Chiesa in cammino assieme agli uomini (sguardo ad extra) dovette cedere il posto a un modello di Chiesa che parla di sé stessa e guarda a sé stessa, ai suoi problemi, alle sue strutture (sguardo ad intra). Il ripiegamento e l’autoreferenzialità, nonché la convinzione-ossessione di essere minacciata dalla secolarizzazione e dalla modernità, hanno poi fatto il resto. La stessa teologia risulta afasica e autoreferenziale. Basterebbe scorrere gli indici di una qualsiasi rivista teologica per capire che tutta «quella roba» è assolutamente estranea ai problemi più urgenti della chiesa e della società. I grandi teologi dell’ultimo secolo hanno veramente investito su una teologia nuova, libera dai linguaggi del passato e proiettata su strade nuove. Quando Rahner parlava dei cristiani anonimi, Danielou del mistero della storia, Metz del dogma come ricordo rischioso, Guardini del dato estetico, poetico e mistico della teologia o Balthasar dell’estetica teologica, tutto ciò diventava sangue vivo che correva anche nelle vene del cattolicesimo di base, creando entusiasmo, respiri profondi e presenza forte nella storia. Il sogno di una Chiesa Come può questo sistema sfiorito e autoreferenziale reggere il confronto con un Papa che prende iniziative sulla collegialità o che tocca finalmente ed efficacemente temi che finora si sono solo cincischiati in qualche conventicola estremista? Perché, dunque, proprio ora, nel momento in cui Francesco parla delle periferie, della misericordia, del «chi sono io per giudicare?», manca proprio quella Chiesa che così profeticamente anticipava questa stagione? Mi si permetta di citare un breve passo del libro La fatica di essere prete di Bellina: «Io sto nella Chiesa perché la Chiesa è la barca che prende dentro tutta l’umanità (…). Dio ci ha regalato la Chiesa come la casa del perdono e della misericordia e non come il tempio del diritto (…) Quindi la Chiesa dovrebbe chiedere prima di tutto, non se sei sposato in chiesa o no, non se sei gay o no, ma «cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi un sorso d’acqua, siediti qui. Vediamo se posso esserti d’aiuto e, se non posso alleviare le tue pene, cercherò di condividere la tua sofferenza anche se non concordo con le tue idee e scelte». Questa clamorosa attuale afasia della Chiesa friulana avrà pur una causa? Le risposte senza dubbio ci stanno e non è mestiere mio sostituirmi a chi le può dare. Mi limito a registrare il vuoto per l’assenza di quella Chiesa che era vivaio culturale di prima grandezza, in prima linea nel terremoto e nella ricostruzione, nelle battaglie per l’università e per il riconoscimento della lingua, di quella Chiesa guidata dalla straordinaria figura di Battisti, vescovo che venne a capire, imparare e abbracciare un popolo più che a normalizzare. È ben certo che dinamiche così complesse difficilmente possono essere governate e risolte da persone singole, per quanto geniali o illuminate esse siano. Ma, non di meno, anche scongiurando la brechtiana maledizione dell’assenza di eroi, c’è sempre necessità di sentinelle o di avanguardie che hanno il compito di indicare strade poco battute o prospettive inedite. Ma, restando nel presente e sempre a proposito di Chiesa, non mi pare che i seminari incoraggino l’attesa di accorte sentinelle e nello stesso panorama intellettuale cattolico nostrano vengono proposte più stilizzazioni che stili. «Tornâ cu la int» Più di quarant’anni fa una parte nobile e vitale della Chiesa friulana parlava proprio la lingua che oggi parla Francesco. Ma quella lingua, diventata oggi la lingua di un Papa, è scomparsa proprio dove era apparsa ben quarant’anni proprio perché è stata scientemente eliminata dalla fase formativa dei preti e sostituita con quella dei princìpi non negoziabili o dell’autoreferenzialità chiesastica. Le attuali congiunture economiche e sociali portano con sé il rischio di smarrire un’intera generazione, la perdita di credibilità nelle istituzioni richiederebbero voci forti, capaci di restituire speranza e voglia di futuro. E, secondo me, molto potrebbe dire e fare la Chiesa friulana semplicemente restando in continuità con la sua storia. Per dirla con Bellina, annunciando l’opera di un Dio liberatore che si manifesta nella forza dei friulani «di vincere la tentazione a barattare la libertà interiore per un’abbondanza puramente materiale e di non perdere il gusto di guardare avanti, verso la terra dei nostri sogni». Era, in fondo, il programma di Glesie furlane: «Tornâ cu la int». Qualcuno ci sta pensando?