Illegio: 40capolavori, un Caravaggio e un Bonatto Minella nella mostra “L’ultima creazione – L’idea divina del femminile”

di LICIO DAMIANI.
Fanno impressione, nell’affascinante e intrigante mostra di Illegio “L’ultima creazione – L’idea divina del femminile” (fino al 4 ottobre), diversi dipinti che narrano la spregiudicatezza e la sconcertante ferocia con cui alcune eroine della Bibbia straziano i nemici del popolo d’Israele per far trionfare il progetto divino. Ma i disegni di Dio sono misteriosi e possono passare, secondo le Sacre Scritture, anche attraverso il sangue, la crudeltà, il tormento. Nel contempo, la rassegna eleva inni intrisi di significati simbolici alla grazia e alla bellezza femminile, sia virginale sia ambiguamente seduttiva. È di rilevante spessore concettuale e di grande impatto spettacolare l’esposizione, comprendente una quarantina di opere, curata come tutte quelle che l’hanno preceduta da don Alessio Geretti con sorprendente ricchezza di cultura artistica, acribia critica, sapienza teologica, profondità spirituale. Uno dei primi personaggi nella sala d’ingresso, dedicata al guppo di donne sterili che, per intervento divino, avrebbero generato addirittura in vecchiaia, è “Rebecca al pozzo” (1848). Pervasa da un alone erotico per quanto idealizzato è affine nell’impostazione ad altre donne bibliche dipinte da Francesco Hayez – si pensi a “Ruth”, a “Betsabea al bagno”, a “Tamar”, alla “Maddalena” – prese a pretesto per esaltare la sensualità tattile del nudo mulíebre. Nelle due tele di Francesco Solimena datate 1710, “Rebecca e il servo di Abramo” e “Giacobbe e Rachele”, la freschezza d’invenzione, le scene scalate in profondità, la “liquida” e intensa qualità cromatica nella quale la luce calda scivola sulle carni ambrate, sui tessuti smaglianti, sulla corazza del guerriero che nella prima opera s’imposta di spalle con energico rilievo, rivelano influssi del napoletano Luca Giordano. Sofisticato pittore di scene sacre Pompeo Batoni in “Agar, Ismaele e l’angelo nel deserto” (1776) sembra preludere al neoclassicismo per il nitore compositivo e per la materia cromatica splendente come porcellana. La concubina cacciata da Abramo ha la grazia aristocratica di una dama settecentesca; la veste bianca dell’angelo è lievemente marezzata di ventosi fruscii. Inquadra l’episodio una scenografia boscosa d’Arcadia. Tra le donne “custodi della vita” è ricordata anche la cananea “Tamar” che, per far parte della religione di Abramo, volle sposare Giuda, il quarto dei figli di Giacobbe, e dargli un discendente. Mise perciò in atto un tranello, facendosi trovare da Giuda vestita da prostituta. Jacopo Bassano ha dipinto l’episodio nella tela “Giuda e Tamar” (metà del XVI secolo) con un realismo ruticano ispirato all’ambiente della campagna veneta. La fanciulla, coperta testa e spalle da uno scialle bianco che spicca sulla veste color sacco, siede sotto un albero, avvicinata dall’uomo in abito contadino. In pagamento della prestazione egli ha accanto la capra, resa con vivace e spiritoso piglio naturalistico. L’episodio si svolge in un paesaggio immerso e come fuso in una cupa luce naturale. La sezione successiva ha per protagoniste le salvatrici di Israele: “Giuditta”, “Giaele”, “Ester”. È il capitolo piú trucido in cui domina il personaggio di “Giuditta”. Geretti ne dà una lettura allegorica: «Nei diversi testi dedicati alla storia di Giuditta una tipologia interpretativa si è imposta, producendone una stabile icona: quella figurale, addetta a fare dell’eroina un emblema di Maria e una personificazione di umiltà e castità che trionfano, grazie all’aiuto di Dio, su orgoglio e lussuria». L’opera piú sconvolgente è la grande tela di Caravaggio, “Giuditta taglia la testa di Oloferne”, superbo e idolatra (1599-1600). Secondo il curatore della mostra la fanciulla «appare sconcertata del proprio gesto» e nel volto avrebbe impresso un moto di orrore mentre affonda l’affilata lama nel collo del generale. Ma l’interpretazione potrebbe anche essere diversa e alludere piú semplicemente a un teatro del sadismo, con la “bella Fornarina” – come la definisce Longhi – che, sotto un tumulto di rossi tendaggi, scanna, spinta da un oscuro impulso – sottolineato dai capezzoli eretti sotto la blusa bianca e dall’arcuarsi impetuoso del manto – il condottiero riverso e rantolante; il fiotto di sangue cola dalla gola; la vecchia serva, mezzana rugosa, sbigottisce davanti all’energia selvaggia della padrona. Il seguito della vicenda è narrato da Orazio Gentileschi in “Giuditta e l’ancella fuggono con la testa di Oloferne”. In un’atmosfera notturna da complotto risalta l’audace scorcio del volto della serva, bruno con gli occhi leggermente a mandorla, espressione di un carattere forte e aristocratico. Tra le molte variazioni sul medesimo episodio spiccano le due morbide opere di Giambattista Piazzetta, rispettivamente del 1715-1720 e del 1748. La seconda, addirittura, è allestita come uno spettacolo teatrale, con Giuditta che apre una sorta di sipario per presentare al pubblico Oloferne decapitato. Da parte sua Rubens organizza la macabra scena sullo sfondo di un drappo rosso. Pinturicchio invece, nella sezione della mostra che disserta sulla bellezza, idealizza l’elegante figura di “Giuditta” con delicatezza soffusa (1470-1512). Una gemma è il Pannello di cassone con storie di Giuditta, Dalila, Ester (1425-1450) attribuito a Giovanni di Paolo: nella terza formella spicca la regina sul trono panneggiata da una dorata veste serica; nella prima fluttuano tre preziose silhouettes di ancelle. “Ester” davanti ad Assuero è anche protagonista della grande tela di Sebastiano Ricci (1733) resa con uno sfavillante fraseggio sfrangiato. Il “botto” finale della rassegna è offerto da uno splendido quadro del quasi sconosciuto pittore torinese Carlo Bonatto Minella, “Giuditta si presenta al popolo” (1877). In un lussureggiante apparato scenico assiro-babilonese l’eroina appare su una scalea in regale veste candida: su un gradino sottostante siede l’ancella in tunica azzurra ricamata di stelle, a terra il sacco con la testa di Oloferne. Spira la lezione del Simbolismo di Gustave Moreau e di Odilon Redon passato per le arie dell’ “Aida” di Verdi.