Paluzza: a Timau la “Koprativa” fu un punto di riferimento, molti sono soci e hanno investito i risparmi

di Domenico Pecile.
Nel 1966 c’erano mille 219 abitanti. Oggi non arrivano a 400. Una differenza di 800 persone che vale qualsiasi spiegazione sociologica senza necessariamente rispolverare denatalità, emigrazione, spopolamento, abbandono della montagna, crisi economica. Tutto era già successo nel viaggio senza ritorno di Timau. Anzi, no. Mancava lo tsunami di CoopCa. Nel 1956, cinquantesimo anniversario della “Società anonima cooperativa di consumo carnica”, oggi CoopCa, c’erano 6 mila soci e 60 spacci sparsi in tutta la Carnia. Uno ogni comune e alcuni anche nelle frazioni. Nel 1966 Par-Koprativa era il negozio principale di Timau. Par-Koprativa era molto di più di un negozio. Era un luogo che aveva un’anima, che racchiudeva il sogno di una mutualità che in Carnia significava servizi, lavoro, solidarietà e anche sviluppo. «In quegli anni – ricorda Marilena – si andava a fare la spesa e non si pagava subito. Il debito veniva annotato sul “libretto” perché gli uomini, i padri, erano a lavorare all’estero e mandavano i soldi una volta al mese. Soltanto allora si andava alla Koprativa a saldare il debito mensile. E se saltavi un mese non succedeva nulla». La cooperativa era un simbolo di fraternità, ma anche di quella comunanza che colmava le distanze tra persone antropologicamente chiuse come il loro paese che va a sbattere contro l’arcigno e beffardo Pizzo Timau che sembra crollare sulla valle sottostante. Timau era una delle tante comunità fedeli a CoopCa. Oggi è uno dei tanti paesi impauriti della Carnia che si sente tradito, umiliato, ingannato. Derubato. Già, soltanto 380 anime. Ma i soci CoopCa sono ancora 73. Di questi, 35 sono titolari di un libretto di risparmi e molti altri anche di azioni. Sanno, ma tacciono. Nessuno azzarda nomi sui titolari dei risparmi. «Dopo quanto accaduto – dichiara il sindaco Massimo Mentil – nessuno ha voglia di parlare. Non c’è nulla da dire. Ci si aggrappa alla speranza. Alcuni mi hanno telefonato. Altri sono venuti in municipio per chiedere, chiedere per sapere». Prima dell’edificio di Par-Koprativa c’è quello che resta della latteria sociale, una stanza minuscola. Albino Unfer è il casaro. «Qui arriva un quintale di latte al giorno che viene portato nella latteria di Sutrio che riceve il latte di tutta la vallata. Fino a pochi anni fa – afferma Albino Unfer – i soci della cooperativa erano 120. Oggi sono rimasti soltanto quattro. E adesso non c’è più neanche la CoopCa». Una pausa. Un sorriso amaro. «La cooperativa – riprende – era il pane quotidiano, era l’ultimo simbolo della Carnia. Qualcuno ha fatto il passo più lungo della gamba. Qualcuno ha gestito male». Le accuse. La rabbia. L’indignazione. «Un’altra tegola per questo paese», commenta amaro Claudio Unfer, per decenni l’autista della tratta Timau-Tolmezzo. «Nessuno – insiste – ha voglia di parlare della cooperativa. Siamo riservati. È come se si riaprisse un’altra ferita. Discuterne fa male. No, non ci voleva». Le ferite si guariscono in solitudine, a Timau come nel resto della Carnia. «Chi ha risparmi – dice ancora il sindaco – se ne sta zitto anche nella sofferenza e mantiene una dignità encomiabile». CoopCa era un marchio di prestigio. Una garanzia. Un’ipoteca per il futuro. Un salvadanaio come quello dei bambini, dal quale potevi attingere quando volevi, controllando sempre il gruzzoletto. Poi arriva il giorno della fine dell’incantesimo. Il verdetto suona beffardo come il “rien ne va plus le jeux sono fait” della roulette. I giochi sono fatti, non c’è più nulla da fare. È il “banco” a vincere. Come sempre, nei giochi come nella vita. Ma la cooperativa, pardon, la cooperazione sarebbe dovuta essere cosa altra. Senza né vinti, né vincitori. «Fanno schifo – sussurra Marilena -, fanno schifo perché quello che hanno fatto lo hanno fatto a tutta la Carnia e se soltanto si pensa che tutti avevano i soldì lì… Il libretto della spesa era la garanzia di sopravvivenza delle famiglie mentre i maschi erano in Svizzera, in Lussemburgo, in Belgio. Minatori, muratori. Emigranti. Lavoravano come asini e mandavano i soldi qui. E i piccoli risparmi andavano nel libretto della cooperativa». «Riguardando la storia centenaria della Cooperativa carnica – si legge nel profilo storico che CoopCa fa di se stessa – si può ben dire che segua di pari passo la storia della Carnia e della sua gente, e, in certo modo ne rappresenta il carattere: costante fin quasi all’ostinazione; tenace nell’attaccamento alla propria terra, pur avara di risorse che, anzi, non sempre compensa gli sforzi di chi vi lavora». Sarà, ma se davvero seguiva la storia della Carnia e della sua gente perché CoopCa ha deciso di fare armi e bagagli, vendere i negozi, lasciare la Carnia per un sogno di grandeur che si è dimostrato mortifero? «Chiudevano i negozi a tappeto e li facevano acquistare ai gestori, ma non certo a prezzi convenienti sapendo che senza il marchio CoopCa non c’era futuro né per qualità né per convenienza», sottolinea Diego Matiz che gestisce l’albergo-ristorante “Da Otto”. «Si sono comportati male – affonda – hanno fatto i soldi con la Carnia e poi se ne sono andati in furlanie e anche in Veneto. E adesso ecco qua». Tante, troppe versioni per un crac che ha inferto un colpo devastante alla Carnia. Dino Matiz si limita a dire di essere frastornato. «Sì, troppe versioni – lamenta – ma nessuno che ci dica dove sta il nocciolo della questione». Sì, alla Carnia mancava soltanto lo tsunami della CoopCa.