Paluzza: una legge e un museo per le Portatrici carniche

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di MAURA DELLE CASE.
In attesa che gli storici si ravvedano riconoscendo loro il posto che meritano nel tragico affresco della Grande Guerra – tanto più considerato che in questi anni se ne celebra il centenario –, un primo, dovuto riconoscimento alla figura delle Portatrici carniche è in arrivo dalla Regione. L’assessore alla cultura, Gianni Torrenti, sta infatti lavorando a un disegno di legge che approderà in breve all’esame dell’aula il cui intento è appunto «riconoscere e valorizzare – parola sua – una storia unica e particolare. tutta al femminile». Saranno dieci articoli al massimo, in cui la Regione fisserà un luogo di riferimento – con tutta probabilità Paluzza – in cui ospitare un piccolo museo e centro documentale dedicato alla storia di queste eroiche donne cui saranno dedicate pure delle borse di studio. «C’è in proposito un forte interesse del Quirinale» ha fatto sapere l’assessore Torrenti che nell’operazione ha coinvolto l’ex parlamentare Manuela Di Centa oltre naturalmente alle associazioni che sul territorio già si occupano di valorizzare la memoria delle portatrici. Con sforzi che la Regione oggi intende mettere a sistema «per poi lasciare però al territorio – precisa Torrenti – la gestione sia dell’archivio che delle iniziative». «Questo disegno di legge vuol essere infatti una freccia all’arco della montagna – precisa l’assessore -, un’occasione per fare aggregazione sul territorio, per attirare studiosi, turisti, appassionati di storia sulle tracce di queste straordinarie figure». La scelta di Paluzza non è casuale. E’ infatti il paese natio della portatrice divenuta simbolo del corpo di ausiliarie, Maria Plozzner Mentil, morta sul campo nel 1916 e insignita della medaglia d’oro al valor militare nel 1997 per “motu proprio” dell’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Con lei, a far su e giù dalla “zona Carnia”, percorrendo più di mille metri di dislivello, si contano tra l’agosto del 1915 e la disfatta di Caporetto oltre mille donne. In molti casi poco più che ragazze. Per non dire bambine. Dedite al focolare, alla famiglia. A portar quella gerla che è poi divenuta il loro simbolo. Prima carica di viveri ed erba sfalciata, poi – con l’avvento della guerra – di armi e munizioni. Il conflitto sconvolge anche le loro vite. Prima gli porta via gli uomini, poi le costringe a farsi loro ausiliarie. Ad andare in aiuto del padre, del marito, dell’amico. “Solito” gej in schiena, stavolta carico di armi e munizioni, spinte da un senso di responsabilità tipicamente femminile cristallizzato dalle parole rimbalzate sulle labbra delle donne di Paluzza: «Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan». Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame. Così, fino alla rotta, centinaia di donne ogni giorno si avventurano al fronte, cariche di gerle piene di vettovaglie, cartucce, granate, medicinali, pesanti anche 40 chili. Arrivate a destinazione dopo ore di cammino massacrante, scaricano la gerla, riferiscono le ultime novità e dopo un breve risposo riprendono la strada per la valle. Panni da lavare issati in schiena e faccende domestiche ad attenderle a casa. In cambio? Una lira e cinquanta centesimi a viaggio, pagati una volta al mese. Ma il valore sta soprattutto nell’intestimabile consapevolezza d’aver agito per la Patria. E per i propri uomini al fronte. Questo cammeo della storia d’Italia è stato fin qui poco meno che dimenticato. Non fosse per l’attività delle locali associazioni e per l’iniziativa isolata dell’ex sindaco di Comeglians, Flavio De Antoni, che alle portatrici l’anno scorso ha intitolato una piazza del paese. Ora a spalancare il sipario ci pensa la Regione, con una leggina ad hoc, che speriamo sia solo l’inizio di una riscoperta, tardiva ma quantomai meritata ed opportuna di questo pezzo di storia d’Italia, scritto sulle montagne della nostra Carnia.