Tarvisio: crisi Weissenfels, cassa integrazione e possibile cordata giapponese

di Antonio Simeoli.
Povero Melzi, quando lui era il padrone le acciaierie Weissenfels a Fusine contavano oltre 400 dipendenti. Ora le storiche acciaierie sono addirittura state smembrate in due aziende precipitando in una crisi senza fine. Per la sezione catene da sollevamento, la Weissenfels Tech-Chains l’anno scorso era arrivata la liquidazione, l’anticamera della fine. Poi era arrivata la soluzione austriaca, mal digerita dai sindacati perchè si trattava della stessa azienda concorrente che anni prima era entrata in Weissenfels assestandole un alto duro colpo. Ora un altro colpo di scena: la Pewag, che ha ottenuto l’affitto del ramo d’azienda dell’impresa nel frattempo dichiarata fallita fino a fine 2015, e si era detta pronta a rilanciare l’occupazione facendola decollare dagli attuali 80 dipedneti fino a oltre 120, potrebbe essere sorpassata dalla corsa all’acquisto dell’acciaieria da una cordata nippo-americana. Sì perchè il gruppo, che fa riferimento al colosso del Sol Levante Kito, ha manifestato una richiesta d’interesse al ciratore fallimentare, la dottoressa Paola Cella, che, come prevede la procedura, aveva aperto l’asta per l’impresa di Fusine. Il tutto, ottenuto il via libera dal comitato dei creditori, rassicurato dai numeri presentati dal possibile compratore su tutti i quattrini disposti a investire per acquistare l’impresa fallita. A conti fatti dovrebbe trattarsi di una cifra superiore ai tre milioni di euro. Fin qui tutto normale, tutto secondo la normale procedura che si adotta in questi casi. Compito del curatore fallimentare, infatti, è quello di garantire il più possibile i creditori, i lavoratori e anche far si chè dal punto di vista delle ricadute sociali sul territorio la strada intrapresa sia la migliore possibile. «Ho sorpreso la procedua di vendita delle acciaierie – si limita a dire la curatrice Paola Cella – perchè c’è un’impresa che ha manifetstato un concreto interesse per Weissenfels. In accordo con i creditori vedremo come si evolve quest’offerta». Stop. Il curatore non può dire altro, salvo rimarcare come tutte le mosse saranno fatte per tutelare oltre agli stessi creditori pure i lavoratori. Alla cordata austriaca, però, questo stop improvviso non è andato giù. Pewag, per avviare la produzione a Fusine aveva creato la società Acciaierie Valcanale (capitale sociale irrisorio di 10 mila euro), depositato una cauzione di 700 mila euro e assunto subito, come da accordi, 85 lavoratori e aveva avviato la produzione di catene da sollevamento con buon profitto e commesse buone. Ora, saputo del possibile arrivo di compratori giapponesi, le cose sono cambiate. «L’azienda aveva buoni ordini – spiega il segretario regionale della Fiom Cgil, Gianpaolo Roccasalva – era pronta a trasferire in Valcanale macchine utilizzate in altri stabilimenti della Repubblica Ceca e della Slovacchia, ma senza garanzie non è disposta a continuare in questi investimenti». Insomma, la Pewag vuole congelare il piano di rilancio e oggi a Udine, nella sede dell’Api, ha convocato le parti sociali per la firma della cassa integrazione per i dipendenti. «Eravamo scettici sull’opzione austriaca, ma le cose funzionano: ora si blocca tutto – spiega Roccasalva – non sappiamo per cosa e ci preoccupano le prospettive». Da oggi, dunque, tutti in cassa. Ma con un grande punto di domanda: la proceduta fallimentare prevede che un’azienda che ha in affitto un’impresa fallita non possa chiederla se non per un brusco calo di ordini. Che al momento non c’è stato. Se fosse tutto un ricatto austriaco per paura dei Giapponesi?