Tolmezzo: Pio Paschini ”Avvocato di Galileo”

Paschini 2

 

(Ermes Dorigo ha tratto dal suo ricco archivio personale questo importante articolo su Pio Paschini, uscito sul Messaggero Veneto di sabato 7 novembre 1992, pensando di rendere un servizio utile alla conoscenza di un grande figlio della Carnia e delle vicende alla sua opera censurata dal Sant’Uffizio e tenuta nascosta per vent’anni )

Approssimandosi il terzo centenario della morte di Galileo (1942) l’Accademia Pontificia delle Scienze pensa di farne scrivere una biografia: secondo le intenzioni del suo presidente padre Agostino Gemelli «sarà efficace dimostrazione che la Chiesa non perseguitò il Galilei, ma largamente lo aiutò nei suoi studi. Non sarà però opera di apologetica, perché questo non è il compito di scienziati, ma di documentazione scientifica e storica». Come autore la scelta cade su Pio Paschini, professore di storia ecclesiastica e rettore dell’ateneo lateranense, e viene subito approvata da Pio XII. Dopo una lettura tecnica del professor Giuseppe Armellini, direttore dell’Osservatorio Astronomico Vaticano, l’opera dovrà essere data immediatamente alle stampe. Invece, finita di scrivere all’inizio del 1944, uscirà soltanto nel 1964. Paschini, friulano tutto d’un pezzo, è insegnante nel Seminario di Udine quando nel 1913 Pio X lo chiama a Roma, e in trent’anni di lavoro universitario ha modo di mettere in luce le sue doti di storico colto ed equilibrato. Avuto l’incarico di stendere la biografia, più volte incoraggiato da papa Pacelli e alleggerito dell’insegnamento, lavora intensamente soprattutto sulla miniera di documenti pubblicati dal Favaro. Confida all’amico don Giuseppe Vale: «Se anche da parte nostra fosse guardato con più coraggio e più serenità a esporre le cose come stanno e come vanno, quanto sarebbe stato più onesto e vantaggioso?». Scrive quindi un articolo sulla rivista dei laureati cattolici Studium dal titolo programmatico: “L’insegnamento di Galileo: non temere la verità “.

Una volta completato il lavoro, Paschini lo consegna a monsignor Angelo Mercati, prefetto dell’Archivio Vaticano e accademico pontificio; questi lo passa al cancelliere Salvucci il quale, dopo l’approvazione scientifica dell’Armellini, invece di mandarlo in tipografia, lo sottopone a una revisione “storica”, preoccupato perché i Gesuiti ne potrebbero uscire male.

Chi altri abbia impedito la pubblicazione ancora non si sa. Di fatto padre Gemelli se ne lava le mani: lasciando a monsignor Giovanbattista Montini un appunto con la rinuncia dell’Accademia a pubblicare l’opera, rimette ogni decisione alla Segreteria di Stato. Pio XII se ne preoccupa e chiede al Sant’Uffizio di esprimersi sull’opportunità di darla alle stampe. Il 15 novembre 1945 Gemelli consiglia a Paschini «di non pubblicare assolutamente la nota opera». Questi replica brusco: «Che c’è sotto a questa manovra? Lei deve ben ricordare quanta pubblicità s’è fatta quando me ne fu dato l’incarico… s’è compromesso il mio nome e ora mi si dice di ritirare quanto ho fatto… Lei mi disse allora che importava mettere in chiaro nel modo più imparziale l’attività dello scienziato, è quello che mi sono sforzato di fare… credo che chi mi dava l’incarico, colla approvazione del Santo Padre, sapesse bene quali fossero le difficoltà da sciogliere e quanto delicate le questioni da affrontare, perché su di esse appunto si desiderava una soluzione imparziale e serena».

Gemelli non risponde, e a Roma evita di incontrarlo. Allora Paschini si rivolge direttamente al sostituto Montini che lo riceve e gli legge la “sentenza” del Sant’Uffizio: poiché contiene l’apologia di Galileo, non è “opportuno” che il libro sia Pubblicato”.

Miscellanea

Schiacciato dal potere curiale, Paschini si chiude nel silenzio. Passa poi il testo a don Giuseppe De Luca, che si è offerto di pubblicarlo nelle sue Edizioni di Storia e Letteratura (ma poi nemmeno lui lo farà, giudicandolo scientificamente debole!). Nel 1957 Paschini viene sollevato dall’incarico di rettore. Avrà la gioia di vedersi riabilitare direttamente dal nuovo    papa Giovanni XXIII, che il 27 novembre 1958 si reca a visitarlo nella sua casa, perché infermo, e quattro anni dopo gli conferisce l’ordine episcopale. I due gesti assumono particolare significato allorché si consideri che nel 1913 concorreva alla cattedra lateranense di storia ecclesiastica anche don Angelo Roncalli, allora professore nel Seminario di Bergamo.

Prima di morire, il 14 dicembre 1962, Paschini affida il manoscritto a monsignor Michele Maccarrone, suo assistente e poi successore alla Lateranense, nella speranza che sia pubblicato. Per cautelarsi, questi si procura anzitutto il parere favorevole del gesuita Vincenzo Monachino, decano della Facoltà di Storia Ecclesiastica dell’Università Gregoriana. Quindi si rivolge all’Accademia Pontificia perché lo stampi: ne ottiene l’assenso, a patto che l’edizione venga curata dal belga Edmond Lamalle, storico della scienza e archivista della Compagnia di Gesù. Con queste credenziali Maccarrone si presenta a Paolo VI a fine luglio del 1963, dicendo apertamente che al Sant’Uffizio l’assessore monsignor Pietro Parente rifiuta l’imprimatur.

Le riserve vengono superate alla ripresa autunnale del Concilio Vaticano II, quando si dibatte lo schema su La Chiesa e il mondo. Anche per la richiesta formulata in una lettera collettiva degli scienziati cattolici, riemerge la questione della condanna del Galilei e della libertà della scienza. Fiutata l’aria nuova, la congregazione plenaria dei cardinali del Sant’Uffizio il 4 marzo 1964 delibera di autorizzare la stampa del libro di Paschini. Il Papa approva il testo, che vede la luce in autunno, nel quarto centenario della nascita di Galileo. L’imprimatur, rilasciato dal vicario generale di Roma il 30 settembre, comparirà nell’edizione del 1965.

I due volumi vengono presentati a Paolo VI il 5 novembre, e l’”Osservatore Romano” ne dà la notizia ufficiale, in prima pagina, nella rubrica Nostre informazioni, definendo l’autore «illustre e compianto». Alla successiva presentazione in libreria, Luigi Firpo esalta la «probità grande» di Paschini, mentre Luigi Salvatorelli considera l’opera «fondamentale per qualsiasi studio da qualsiasi punto di vista».

La storia tuttavia non è ancora finita. Il padre Lamalle nel fare la revisione del manoscritto non si è limitato, come sarebbe stato ragionevole, agli indispensabili aggiornamenti scientifici. Nell’introduzione, prendendo le distanze dal testo, sostiene di aver operato interventi «molto discreti»; in realtà si è intromesso un centinaio di volte per mutilare o integrare il contenuto, talvolta facendo dire al Paschini quello che non ha detto se dal Papa in giù la pratica Paschini viene considerata archiviata. Non vengono mosse censure, dal momento che non contiene errori dottrinali; sono i vecchi timori di brutte figure a riemergere, decretando il silenzio. Monsignor Alfredo Ottaviani, allora assessore al Sant’Uffizio, convoca l’autore per proporgli l’acquisto del manoscritto. Paschini sa che andrebbe a finire nel fondo di un magazzino e rifiuta: «Con qualche migliaio di lire intendevano mettere tutto a tacere E’ chiaro come la luce del sole, e non hanno piacere di sentirselo dire… In tutte le mie pubblicazioni mi sono proposto di procedere colla più assoluta imparzialità, e perciò mi è riuscito di sommo stupore e disgusto che mi sia rivolta ora l’accusa di non aver fatto altro che l’apologia di Galileo. Essa intacca infatti la mia probità scientifica di studioso e di insegnante»; 25.000 lire gli vengono comunque mandate da Montini con una lettera piena d’imbarazzo.

Paschini1

Facendo giustizia di ogni furberia maldestra, è il Concilio a conferire a Pio Paschini i crismi di storico della Chiesa citando negli Atti finali proprio il suo libro su Galileo. Il 4 novembre 1964, per iniziativa di monsignor Arthur Elchinger, vescovo coadiutore di Strasburgo, la questione Galileo è portata all’attenzione dei Padri conciliari: sipario di «tragica incomprensione» e del conseguente abbandono della fede da parte di molti scienziati. E riemerge anche qui la divisione fra quanti vorrebbero che si continuasse a tacere e gli altri che intendono parlare apertamente. Il verbale del 1 aprile 1965 testimonia che è stato tolto il n. 40 della costituzione Gaudium et spes con il riferimento alla condanna di Galileo come errore da non ripetere. Il compromesso è invece al n. 36 della stessa costituzione: il libro di Paschini vi è citato in nota come indiretta espressione delle intenzioni conciliari e quale direttiva pastorale, mentre il testo dice finalmente: «Ci sia consentito di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivati dal non aver sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano fra loro».“ “Schiacciato dal potere curiale, Paschini si chiude nel silenzio. Passa poi il testo a don Giuseppe De Luca, che si è offerto di pubblicarlo nelle sue Edizioni di Storia e Letteratura (ma poi nemmeno lui lo farà, giudicandolo scientificamente debole!).

Commenta l’autore: «Pretendere che ne dicessi male unicamente per fare il comodo loro, questo poi no. Se loro hanno fatto un grosso sproposito secoli fa (e non è l’unico), dovremmo commettere una disonestà noi oggi? E dire che mi si era raccomandalo di essere obiettivo, imparziale, ecc., ecc. Che i Gesuiti e i Domenicani non ci facciano bella figura…”. Se non addirittura il contrario, al fine di salvare la faccia ai giudici di allora e ai suoi confratelli gesuiti. Manca perfino una netta, e doverosa, distinzione formale delle varianti. Tutto questo sebbene un confratello di Lamalle, padre Domenico Grasso, scrivesse in “Civiltà Cattolica” fin dal 1952: «Il caso Galilei è un episodio che non vorremmo vedere scritto nelle pagine della storia della Chiesa». E monsignor Maccarrone, nell’edizione del 1965, avallerà le manomissioni di Lamalle. Ma gli altarini verranno tutti scoperti da un archivista, monsignor Pietro Bertolla, che metterà a confronto il volume col manoscritto originale, conservato nella biblioteca del Seminario di Udine.

Gemelli consiglia a Paschini «di non pubblicare assolutamente la nota opera». Questi replica brusco: «Che c’è sotto a questa manovra? Lei deve ben ricordare quanta pubblicità s’è fatta quando me ne fu dato l’incarico… s’è compromesso il mio nome e ora mi si dice di ritirare quanto ho fatto… Lei mi disse allora che importava mettere in chiaro nel modo più imparziale l’attività dello scienziato, è quello che mi sono sforzato di fare… credo che chi mi dava l’incarico, colla approvazione del Santo Padre, sapesse bene quali fossero le difficoltà da sciogliere e quanto delicate le questioni da affrontare, perché su di esse appunto si desiderava una soluzione imparziale e serena».

Gemelli non risponde, e a Roma evita di incontrarlo. Allora Paschini si rivolge direttamente al sostituto Montini che lo riceve e gli legge la “sentènza” del Sant’Uffizio: poiché contiene l’apologia di Galileo, non è “opportuno” che il libro sia Pubblicato”. E libro di Paschini vi è citato in nota come indiretta espressione delle intenzioni conciliari e quale direttiva pastorale, mentre il testo dice finalmente: «Ci sia consentito di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivati dal non aver sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano fra loro».

Nel 1978, anno centenario della nascita di Paschini, si tiene in Friuli un convegno celebrativo. Nell’occasione, papa Luciani lo definisce «edificante figura sacerdotale e insigne cultore di storia ecclesiastica». L’arcivescovo di Udine monsignor Alfredo Battisti, che all’Università del Laterano lo ha avuto come relatore della tesi di laurea, ricorda quella pena sofferta «con magnanimità, con pazienza, da solo». Monsignor Pietro Nonis, professore dell’Università di Padova, poi vescovo di Vicenza, definisce Paschini «antesignano degli studiosi liberati finalmente dal timore che riconoscere un errore della propria parte dovesse procurare per forza una crisi della propria credibilità». Chi porta la responsabilità di aver ostacolato la pubblicazione «non ha reso un buon servizio né alla causa della scienza storica né a quella della religione cattolico-romana»; e chi ha censurato il testo ha compiuto «una vera e propria manomissione, scientificamente lesiva e moralmente illecita».