Carnia di canti e fuochi la bella tradizione è qui

di GIANPAOLO GRI.

Anche la tradizione popolare porta doni nel periodo natalizio. Non sono vistosi come i pacchi che si confezionano nei centri commerciali; sono doni umili, nascosti ormai fra le pieghe della società dei consumi; hanno bisogno di attenzioni. Attenzione, come quella reclamata dal canto di questua natalizio piú prezioso e caratteristico della tradizione friulana: Atents duc’ quanc’ stàit a sintì / una cjanzòn ca fâs stupî:/ quan’ che nassé il nestri Signôr / lusiva una stela di grant sflandôr. /… Flurìvin i monts, i cjamps e i prâts / rosis e violis in quantitât… per chiudere, a modo dei cantastorie: Veso sintût, o auditôrs, / la biela istoria di chesc’ pastôrs? /L’à cumpunùda un simpliciòt /a di un biel sun d’un sivilòt … Quando l’antica linea melodica del canto, raccolta nel cuore della Carnia, a Ligosullo, venne resa nota per la prima volta nel 1895 agli etnologi dalla grande etnomusicologa russa Ella Adaiewski (che soggiornava volentieri in Friuli, nell’allora cosmopolita e colta Tarcento), quel testo aveva alle spalle almeno tre secoli di vita. Si era diffuso durante la Controriforma in ambito popolare in cento varianti; era divenuto il leit-motiv di una festa non immersa (come poi via via, nel corso del Novecento) nel Natale borghese e cittadino da godere al chiuso, nel calore domestico, sotto l’albero, ma ancora vigorosamente collettiva. L’emblema di quel Natale era la questua porta a porta organizzata dalla «gioventú» del paese: il corteo della Stella e dei Tre Re donava le strofe del canto e riceveva in cambio un pugno di sops; la reciprocità riannodava i fili dell’appartenenza comunitaria. Lo Staimi atents (o il Lusive la lune, come recita l’incipit di molte varianti friulane) canta una notte piena di fascino e di mistero, in armonia con il quadro complessivo delle credenze e leggende relative al tempo culminante dell’attesa. È la notte del mondo alla rovescia: c’è un Dio che si incarna lontano dalle città e dai potenti, ed ecco che i fiori germogliano sotto la neve, l’acqua dei ruscelli scorre al contrario, uomini e animali possono comprendersi. Per tradizione, la notte di Natale è il tempo in cui si trasmettono poteri e saperi straordinari; se guardi il correre delle nuvole con i piedi al centro di un crocicchio, scorgi il futuro. È la notte in cui non torna soltanto il Bambino; tornano anche i morti, in processione, a fare madins nelle chiesette fuori mano e fin su, alla pieve-madre di San Pietro di Zuglio, un’ora prima della funzione religiosa dei vivi. Proprio quest’antica dimensione funebre della vigilia e del tempo di Natale conservatasi nelle leggende friulane, insieme con il tema del rovesciamento (la festa degli Innocenti e la forza dei piú piccoli, capace di esigere la buina man dagli adulti; il sovvertimento dell’ordine in paese legata alla festa dei coscritti e dei cidulârs, e altro ancora) e la lunga durata delle credenze nelle figure mitiche femminili a governo del tempo della filatura (le tante varianti della «vecchia col fuso», della Redodesa, della Perchta, della vecchia impiantata sulla cima del palo che regge il pignarûl epifanico), richiamano il senso profondo di un’attesa segnata dalla speranza che si apra una fessura nella gabbia spazio-temporale in cui uomini e paesi sono imprigionati. È venuto di moda, in questi ultimi anni, il recupero delle «sopravvivenze pagane» che avrebbero resistito all’interno del folklore. C’è chi le vede come radici carsiche o come reperti archeologici da individuare, estrarre dal terreno, ripulire ed esibire come fattori di rivitalizzazione dell’identità. Non è un buon modo di accostare le tradizioni. Il quadro dei simbolismi che caratterizzano in particolare il tempo delle Dodici Notti fra il Natale e l’Epifania non mostra stratificazioni e contrapposizioni: intrecci, piuttosto, e compenetrazioni. Il Natale cristiano, da intendersi come «festa lunga» che condensa l’intero ciclo cosmico (lo sapeva bene il mondo contadino: ognuno di quei giorni è uno dei mesi dell’anno che verrà, e occorre scrutare con attenzione i segni, come prescrive il rituale de lis calendis o mesàis) non nasconde e non nega i complessi cultuali precedenti segnati dai riti solstiziali e di inizio di ciclo; regala significati e vita nuova, invece, a una «foresta di simboli» al cui interno vengono trasfigurati i temi della luce e del fuoco, dell’albero e del ceppo, del dono e del contro-dono, con singolare intreccio di pratiche di previsione e propiziazione dell’abbondanza e della felicità: con la percezione, almeno, di essere parte di un disegno cosmico che conduce verso la luce vera e piena. Non è mai stato facile per le comunità umane sanare la contraddizione che vede da un lato l’esperienza del tempo ciclico di una natura che muore e rifiorisce, dall’altro quella di un tempo dell’uomo che invece soltanto declina. Io mi consolo cantando con gli amici il vecchio Stàimi atents e la buina novèla che annuncia. Sento che racconta un soffio di vita segreta che, nel cuore piú nero dell’inverno, percorre come un fremito la creazione, rinnovandola. Avverto che testimonia come meglio non si potrebbe la forza simbolica di questi giorni del calendario: una trama profonda capace di reggere al di sotto dei processi di trasformazione che hanno segnato la storia e che feriscono anche il nostro vivere contemporaneo.