Carnia: ricordo di Angelica Bonanni, donna irripetibile

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Angelica Bonanni, ritratta da Umberto Antonelli

 

di Ermes Dorigo.

Angelica Bonanni, figura dai tratti mitici, non poteva morire, ma solo passare dal sonno all’al di là, lei, senza tempo, nell’eternità. Ero ancora troppo sgomento dalla notizia della sua scomparsa, per pensare che il filo del nostro colloquio intimo e ininterrotto di tanti anni si fosse improvvisamente spezzato. I nostri incontri, spesso intersecati dalla presenza vigile e affettuosa della sorella Carmela, purtroppo anche lei da poco scomparsa, non erano abitudini, ma necessità rituali, dei quali entrambi sentivamo l’esigenza: io venivo trasportato e guidato in un mondo altro da Angelica, che in quei momenti esprimeva tutta la sua forza combattiva interiore, la fierezza per la sua terra, la Carnia, trasfusa e trasfigurata, spiritualizzata quasi, nella sua enigmaticità e duplicità di bellezza e dolore, nei suoi quadri e rievocata, fissata e tramandata nei suoi libri: 1.Il mio canto alla donna carnica (Angelica Bonanni si rivela soprattutto una donna libera con una grande e autonoma forza interiore, derivante da un animo sgombro, che ha filtrato attraverso la sofferenza dell’anima le esperienze e le amarezze della storia e della vita, e che può quindi, appunto perché libera da se stessa e piena delle vite della natura e degli uomini, narrarle con partecipazione, come proprie, e col distacco nello stesso tempo di chi è convinto che ci sia dentro di noi una forza – la Fede, la speranza, l’illusione, il sogno, il desiderio – irriducibile e indomabile da qualsiasi avversità: una forza vitale, spirituale o/e naturale ch’essa sia. Così, come nei suoi quadri

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 rarefà e toglie peso alla materia senza negarla, nella narrazione questa interiore forza primigenia e vitale rievoca in forma quasi trasognata fatiche miserie dolori a dirci che, comunque, la vita, non solo come volontà ma anche come gioia creaturale di vivere, trionfa sempre e comunque, se si è capaci di uscire da se stessi e di sentirsi partecipi dei battiti cosmici della natura e delle esperienze universali della storia: la lettura del libro provoca talora nel lettore, appunto, uno slargo del cuore, una vertigine come d’infinito e il nostro piccolo cuore si sente in certi momenti cuore del mondo e nel mondo in un’atmosfera di realismo fantastico. Ma c’è di più. La Bonanni in questo libro appare come il femminile di Michele Gortani, nel senso che come lui ha il coraggio di ‘definire’ le qualità e le caratteristiche di un popolo, è capace di ‘pensarlo’, ha il coraggio di tentare di individuarne e farne emergere l’anima profonda. Forse è una sorta di autoritratto per interposta persona, la proiezione delle strutture e degli archetipi della sua anima sulle donne della Carnia. Più probabilmente è l’identificazione con dei modelli, delle qualità umane, che sembrano scomparse e che invece sono solo sopite, dimenticate, celate dalle trasformazioni sociali e culturali di questi anni, ma che, recuperate in forme nuove, potrebbero ancora sostenere l’animo collettivo dei carnici. Infatti, sembra suggerire la Bonanni, se la ‘voce’ interiore che plasma il nostro carattere e la nostra identità è quella materna e femminile, dobbiamo riascoltare quella voce che lei fa emergere dalle fratture e dalle omissioni della storia, se vogliamo recuperare una identità che ci sostenga in tempi diversi rispetto a quelli nei quali vissero i modelli. Quindi, non rievocazione regressiva e nostalgica, ma quasi una sferzata, per affrontare il futuro poggiando i piedi su un solido terreno non, come pare oggi, sul vuoto.“Non ho saputo trovare – scrive l’Autrice – una giustificazione al silenzio assoluto sui viaggi disastrosi che durante le due guerre le donne della Carnia dovettero intraprendere verso il Friuli “. Forse per “falso pudore” di svelare le proprie miserie con un “uso di tacere sempre “, che ha portato solo danni alla Carnia. Lei con questo libro intende rimuovere questo colpevole “silenzio“, per raccontare le storie di queste donne “attive, sagge, sincere, intelligenti, coraggiose, discrete e di profondo senso umanitario… di altissima forza spirituale, di responsabilità consapevole, di fiduciosa speranza”, ‘madri’, nel senso che intendevo sopra, delle virtù dei carnici, “gente di inestimabile modestia, di una umiltà silenziosa e ardita e nel contempo cosciente, dotata di formidabile costanza e decisione “. La donna carnica d’un tempo, vissuta in condizioni difficili e spesso tragiche – guerre, emigrazioni.. – “mai fece un lamento, mai parlò con tristezza, mai si rammaricò del suo destino, mai trascurò la sua famiglia”, ma di una “dignità morale severa” e dotata di un “senso scrupoloso della onestà della vita “, vestita modestamente “, aveva “modi da persona educata, sapeva presentarsi, parlava chiaramente delle sue cose, sapeva far intendere le sue ragioni con discrezione e sicurezza, umiltà e modestia” e rivelava la “verità del parlare semplice e sincero”. Non sono qualità passate, per la Bonanni, che ritiene “ancora attuale tale personalità”, fondata su un profondo senso di dignità per quel che riguarda l’indipendenza in genere” per cui la buona carnica rifiuta ogni “umiliante senso si dipendenza e sudditanza”. Tale personalità “rifugge da espressioni fiorite e di stile anche perché la lingua carnica è schematica e tacitiana: tende esclusivamente all’essenziale. La donna carnica, infine, pensa molto e parla poco, appunto perché è fedele al concetto che la parola non vale se ad essa non corrispondono fatti concreti”. Raccogliendo le testimonianze di tante donne, ciò che ha destato la sua sorpresa è che esse delle tragiche e dolorose vicende vissute tendono a far risaltare solo il particolare umoristico, che toglie “il tono di tristezza e pena, e se ne ride dolorosamente”. Perché? si chiede e avanza un’ipotesi: “Sappiamo che in ogni avvenimento, anche nel più tragico e triste, sopraggiungere sempre vivo ed inaspettato il particolare che distoglie e rinfranca: forse così vuole la Natura per dare aiuto nella sofferenza”. Il nucleo del libro è costituito dalla reinvenzione narrativa del viaggio di quattro donne – Anna, Lucia, Teresa, Maria – durante l’occupazione nazicosacca della Carnia a recuperare viveri in Friuli: all’andata attraverso la valle di Preone fino a Portogruaro, al ritorno attraverso la val Tramontina e il passo di Rest. Qui l’Autrice rivela scioltezza narrativa e capacità di rievocazione epica, soprattutto quando descrive il raduno a Meduno delle varie comitive di donne sulla via del ritorno; ma soprattutto emerge la pittrice nelle tante descrizioni di paesaggi della valle di Preone e della val Tramontina.

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Proviamo ad entrare in un suo quadro, là dove descrive l’Arzino:“Le sue acque verde-azzurro or si vedono or son nascoste fra le macchie di faggi, di frassini e abeti ed or qui or là scendono a cascata da massi enormi fermi da secoli, alzando spume candide e trasparenti come veli; a tratti invece le acque scorrono tranquille e calme tra i prati e allora risplende e spicca il colore azzurro tra il verde“. Su questo sfondo spicca il ritratto di Lucia, “una bellissima giovane; statura alta, snella, con un profilo da statua greca, occhi sul verde-marrone e una voce di tono profondo, molto suadente ed armonioso, con una nota affascinante che faceva subito simpatia”. Le opere narrative di Angelica Bonanni non ci conducono nel passato, anche se esso, sedimentato nelle profondità dell’anima, detta l’impulso che dall’interno preme per rivelarsi, prendere forma e oggettivarsi all’esterno, ma nell’antico, che astrae dal passato forme, archetipi, atmosfere, tempi umani e naturali, sensi di appartenenza, e li consegna e li proietta come atemporale durata psicologica, quasi mitica, nel presente e nel futuro. 2. Un’antica presenza. Alcune costumanze della Carnia: in questo libro le “costumanze” carniche non sono descritte nella loro apparenza esteriore, che le condannerebbe all’oblio in un passato datato e concluso, privo di voce per noi contemporanei, ma sono ricreate, rivissute e filtrate, attraverso una serena malinconia, dall’interno con un magico trasferimento psicologico in tempi e spazi indefiniti; antichi, appunto. In tale maniera Angelica rende perennemente presenti dentro di noi desideri di appartenenza e solidarietà, un senso creaturale ed umile della vita, il bisogno di sicurezze materiali, di certezze morali e di valori, che ci siano di guida in questo eterno presente senza storia, nel quale la vicenda umana di ognuno è sempre più priva di significato e di direzione. 3. Storia del convento dei Frati Francescani di Raveo, che godettero della protezione del Patriarca Dionisio Delfino, fondato nel 1686 da padre Antonio Odorico Bonano, e sopravvissuto, grazie anche a donazioni e legati, fino a quando la Legge italica del 1810 ne decretò la soppressione e nel quale si fermò di passaggio per Roma anche il futuro Santo, Benedetto Labre. Rappresenta l’unica testimonianza di vita monastica in Carnia; ora proprietà di privati è visitabile solo ed esclusivamente su richiesta; convento diventato luogo di umanità, di intimità, di spiritualità, da dove lo spirito di Angelica immagino che ora invii e lasci a tutti noi questo suo messaggio:Finché tu, passando per un bosco, ti fermerai a sentire la voce del silenzio, finché ti incanterai davanti a un tramonto o al sorgere del sole, o ascolterai con commozione il vento che sussurra tra le foglie e ti esalterai a guardare il cielo stellato e i colori dei fiori, tu sei un’anima buona; la solitudine non la conoscerai; una vita felice, nonostante tutte le vicende che ti coinvolgeranno, sarà il tuo destino”.

Amor la mosse, mi venne in mente, che la fece scrivere. ‘Angelica’ come il suo nome, ma non angelo custode; una via di mezzo come qualità interiori e temperamento tra un serafino e l’arcangelo Michele con la spada; spirito di carità ma anche dialettica, battagliera concreta; esperta degli umani vizi tende però sempre a far emergere soprattutto il lato migliore, la bontà degli animi e con spirito di carità, appunto, diffonde speranza nei cuori di coloro che disperano o rischiano di lasciarsi sopraffare dalle ferite inferte loro dalla vita: i libri sono, al di là delle informazioni in essi contenute, specchio della sua anima, ‘evangelica’, annunciatrice di buona novella. La sua stessa persona condensava in sé il divenire e il senso dell’eterno, il peso della storia e la leggerezza della fede, la tristezza per il dolore del vivere e uno spirito indomito di speranza e di redenzione. Una visione atemporale, quando compariva nel suo volto delicatamente affilato dalla sofferenza serena di chi ha attraversato il Novecento, secolo, come ha detto Vincenzo Consolo, di “tanto fiele e poco miele”; i capelli raccolti morbidamente sulla nuca; slanciata e riservata nel corpo, come raccolta in se stessa; d’una antica e pur sempre nuova eleganza nel vestito su toni di terra di Siena bruciata e rosso bruno, foulard di seta, parca di raffinati merletti e gioielli d’epoca: così si percepiva l’arrivo di Angelica Bonanni, come un visiting angel, donna terrena, ma che apparteneva al tempo – e il tempo non ha tempo – più che alla storia e alla cronaca, anche se essa era viva e combattiva in essa, non assente. Emanava un fascino pieno di enigmi e interrogativi come gli esseri mitici che popolavano mondi ben diversi dal nostro, come vivesse sospesa tra visibile e invisibile, materiale e spirituale. Una presenza sempre delicata, fine e le sue parole erano sempre parole di cristiana speranza, luminose, ma ombrate dalla conoscenza e dall’esperienza della sofferenza e del male, di quella tonalità triste e malinconica che connota i suoi dipinti, apparentemente realistici, in realtà trasfigurazione interiore e oggettivazione cromatica della memoria triste delle cose e del creato.

Oreade e driade della Carnia l’avevo definita in un ritratto, che avevo tentato di tracciare di lei, presente e sfuggente; piena di fede e amareggiata, più che disperata, per le tante cattiverie del mondo, prima tra tutte la perdita della memoria storica; un vuoto che lei con pertinacia, ostinazione, forza di volontà tentava di colmare col suo lavoro, ma anche con la sua figura, con la sua presenza in tutte le più significative occasioni, culturali e non: ricordo la sua caparbietà, quando riuscì a a farsi presentare e a parlare con l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, in visita a Timau, a perorare in poco tempo la causa della sua terra e a donargli il suo Canto alla donna carnica, dove scriveva: “spero che con l’aiuto di molti i progetti di sviluppo, da tutti auspicati, si possano realizzare a favore di queste genti oneste, generose, attive, geniali, amanti della loro storia e della propria terra, alla quale si sentono intimamente e profondamente legati”.

La sua persona condensava in sé il divenire e il senso dell’eterno; il peso della storia e la leggerezza della fede; la tristezza per il dolore del vivere e uno spirito indomito di speranza e di redenzione. E’ stata soprattutto una donna libera di grande e autonoma forza interiore, derivante da un animo sgombro che aveva filtrato attraverso la sofferenza dell’anima le esperienze e le amarezze della storia e della vita e che, quindi, appunto perché libera da se stessa e piena delle vite della natura e degli uomini poteva narrarle con partecipazione, come proprie, ma anche col distacco nello stesso tempo di chi è convinta che ci sia dentro di noi una forza, in lei la fede, irriducibile e indomabile da qualsiasi avversità. Così come nei suoi quadri rarefaceva e toglieva peso alla materia senza negarla, nella narrazione questa interiore forza primigenia e vitale rievocava in forma quasi trasognata fatiche, miserie, dolori a dirci che, comunque, la vita non solo come volontà ma anche come gioia creaturale di vivere trionfa sempre e comunque, se si è capaci di uscir da se stessi e di sentirsi partecipi dei battiti cosmici della natura e delle esperienze universali della storia. Attraverso le sue parole rendeva perennemente presenti dentro di noi desideri di appartenenza e solidarietà, un senso creaturale ed umile della vita, il bisogno di sicurezze materiali, di certezze morali e di valori, che ci siano di guida in questo eterno presente senza storia, nel quale la vicenda umana di ognuno è sempre più priva di significato e direzione. Mi mancherà. Soprattutto il suo fascino pieno di enigmi e interrogativi, quello di esseri mitici che popolavano mondi ben diversi dal nostro, come vivesse sospesa tra visibile e invisibile, materiale e spirituale. Una presenza sempre delicata e fine, e le sue parole sempre parole di cristiana speranza; luminose ma ombrate dalla conoscenza e dall’esperienza della sofferenza e del male, di quella tonalità triste e malinconica che connotava la sua anima. Mi mancheranno le sue telefonate improvvise, solo per conversare un po’ con me, oppure per informarsi, apprensiva affettuosa preoccupata, se qualche problema mi turbava. Mi mancherà…

Una risposta a “Carnia: ricordo di Angelica Bonanni, donna irripetibile”

  1. Ricordo il percorso di pace che Angelica Bonanni costruì all’esterno del romitorio di Raveo: una serie di piccole lapidi di pietra grigia, con frasi di Martin Luther King, John Kennedy, Papa Giovanni XXIII°ed altri,ora distrutto. Mostravano i suoi valori e la sua particolare sensibilità. Io credo che quel romitorio, a Lei tanto caro, non possa esser dimenticato, ma debba venir valorizzato, e vorrei tanto rivedere quel percorso di pace risorgere in suo onore e memoria. Laura Matelda Puppini

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