Carnia: Romano Marchetti, un antieroe del nostro tempo

di Ermes Dorigo.

(Si ripropone ‘omaggio a Romano Marchetti 100 anni’  per i 103  il 26 gennaio  giornata in cui  sarà insignito della Medaglia d’oro al Valor Militare  da delegato del Presidente della Repubblica)

“Une côce in miéč al prât/ une côce iò ai cjatât”: così cantilenando, arrivava coi suoi occhietti furbi il pittore Arturo Cussigh e si sedeva, al Roma, accanto a Romano e a me vicino al fogolâr, balcone sopraelevato, da dove si dominava la sala affollata di avventori, seduti o in piedi sulle verdi piastrelle  abrase attorno al bancone, appartati dal romorìo a folate dell’ambiente fumigante; di tempo in tempo passava Gianni Cosetti, assorto o ruspio o amabile conversatore, ad attizzare il fuoco ed una sontuosa fiamma, che dalla primavera all’autunno era sostituita dalle traboccanti  e sgargianti composizioni floreali della sorella Liliana. Era divenuto un appuntamento rituale: l’ironia di Cussigh e la passione indignata di Romano che, traendo dalla tasca un foglio dopo l’altro, dimostrava con grafici, ragionamenti, schizzi il tradimento  nei confronti della Carnia dei politici locali, succubi del latrocinio udinese.

Credo che il nostro primo incontro a tu per tu sia avvenuto dopo il terremoto del 1976 proprio sull’entrata del Roma e che egli si sia rivolto a me con un rimbrotto, per aver io definito  eccessivo, in uno dei tanti incontri culturali, cui partecipavamo entrambi, il suo anti-udinesismo: “Puoi pure dissentire, ma devi rispettare anche le opinioni che non condividi!”, mi disse con sguardo fermo, poi quasi volò via lungo il marciapiede con l’impermeabile svolazzante che pareva il tenente Colombo, pensai; similitudine appropriata, mi resi conto in seguito, in quanto anche lui sommesso e modesto, antiretorico, dissimulatore delle proprie grandi qualità di intelligenza critica e investigativa: documenti, leggi, fatti, prove a smascherare i falsi alibi dei politicanti.

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In seguito, da diverse occasionali conversazioni, seppi che era nato il 26 gennaio 1913 a Tolmezzo, da Rachele Diana di Maiaso (compresi così il motivo del suo profondo legame con questo paese e con la Cooperativa di Lavoro di Enemonzo, che aveva contribuito a fondare) e dal direttore didattico Sardo Marchetti, quello stesso, me la mostrò qualche anno dopo, che aveva steso nel 1907 la sua relazione su Benito Mussolini, maestro a Tolmezzo, ripresa con grande evidenza da Claudio Magris sul Corriere della sera del 27 febbraio 1993: “Il Sig. Benito Mussolini non fu un maestro senza una naturale disposizione all’arte educativa, ma senza metodo, mancante di quei mezzi e abilità che sono istromenti indispensabili all’educatore, senza la chiara visione di quanto deve impartire nella scuola, disorganico nel procedimento; il sig. Benito Mussolini (pur riconoscendogli il suo lavoro) ha ottenuto frutti scarsi. Avrebbe potuto raggiungere un profitto molto migliore se avesse dato alla scuola buona parte delle sue non comuni risorse intellettuali”. Appresi, inoltre, che era agronomo, laureato a Firenze e con una specializzazione in Agricoltura tropicale; ma soprattutto ch’era stato un combattente nella lotta di Liberazione dalla dominazione nazifascita e caucasica: dopo aver contribuito a creare una rete resistenziale in Carnia, il coordinamento dei CLN di vallata, il comando unificato delle 5 brigate Osoppo-Garibaldi operanti in Carnia, del quale divenne Commissario unico, era stato nel 1944 tra i padri costituenti ad Ampezzo della Giunta Civile di Governo della Zona Libera della Carnia. Così lo ricorda nel giugno di quell’anno Tiziano Dalla Marta nel suo libro autobiografico Il volo del rondone: “Trentenne, bello nella divisa kaki, il fazzoletto verde intorno al collo. Con voce quasi musicale, gli occhi chiari che guardavano lontano come per trovare l’ispirazione al suo argomentare, mi parla di giustizia sociale e di libertà, di democrazia e di autogoverno per un migliore avvenire della Carnia. Non accenna alla violenza che sta disintegrando il mondo, ha la serena determinazione di chi già si prodiga nell’opera di ricostruzione”.

Pur avendo sperimentato di persona il diffuso atteggiamento antipartigiano, non mi pareva che questo suo passato potesse pesare a tal punto su di lui e determinarne come un isolamento, pur tra formali attestati di stima. C’era, infatti, anche qualcos’altro: lui, azionista e poi repubblicano, nel dopoguerra si era avvicinato agli esponenti di Unità popolare ed era “in combutta” coi membri della Giunta di sinistra del sindaco Pesce: i moderati lo guardavano con sospetto, mentre la Questura lo qualificava  come “pericoloso in zona di confine, sospetto di intelligenza con Tito”; di fatto,  venne allontanato dal Friuli anche per aver aggredito verbalmente  il comiziante on. Tiziano Tessitori, che aveva definito gli esponenti di Unità  popolare” quelli delle mantenute”; l’esilio politico dura dal 1953 – Savona, Treviso – fino al 1964, quando può tornare in Regione, ma senza poter mai rivestire la carica , che gli spettava di diritto, per aver superato gli esami di Ispettore Capo per merito distinto; infatti,  quando  vengono nominati i Capi dell’Ispettorato Provinciale di Udine e del Servizio Agrario Autonomo della montagna, Romano viene escluso.

Mai, comunque, una parola di vittimismo e di rancore da parte sua; rabbia certo, indignazione, ma niente odio, fedele, se pur a denti stretti, fino in fondo ai suoi ideali di fratellanza universale; ma i fatti sì, perché si ricordasse la cattiveria del potere, quando, per spirito di indipendenza e di libertà, non ci si sottomette ad esso. Fatti, storia, individuale e collettiva; ma, da antieroe, non ha mai voluto porsi come saccente maestro: “Vedi – mi diceva -, io ti dico quello che ho fatto, non so se bene o male. Tu scegli e utilizza quello che ritieni valido”: responsabilizzava l’interlocutore, lo costringeva a riflettere, a valutare, a formarsi un giudizio personale e autonomo: maieutico, socratico nel suo sapere di non sapere, ma fermo nei propri ideali (europeista ante litteram diede al figlio il nome di:Euro),  nelle proprie convinzioni e nell’ interminato amore per la sua terra.

A guerra appena finita, il 19 maggio 1945 vede la luce ad opera sua il settimanale Carnia, la cui direzione dopo il numero 13 deve abbandonare, per motivi di lavoro: doveva pensare alla famiglia,  sostenuta fino allora soprattutto dal lavoro della moglie Lida Benardelli, che aveva sposato nel 1941. Sotto lo pseudonimo di Cino da Monte rilancia, memore delle esperienze del primo Novecento e della Zona Libera,  i temi del cooperativismo e la necessità di un organo di autogoverno e autodeterminazione della Carnia (sarà affidato a lui il compito di studiare lo statuto della Magnifica Comunità Cadorina e di preparare una bozza per quella che nel 1947 sarà la Comunità Carnica; bozza bocciata, perché troppo ‘autonomista’): “La Carnia è una piccola regione: la lingua, la razza, il sentimento, le consuetudini dei suoi figli, i problemi di carattere industriale, commerciale, agricolo, pastorale, identici  o quasi  in ciascuna delle valli, ne fanno un’unità distinta dal Friuli non scindibile in parti più piccole. I problemi della Carnia in Friuli son poco sentiti perché non sono gli stessi; inoltre Udine è troppo lontana anche in chilometri da tali problemi.”

Cosa ha rappresentato per me l’incontro con Romano? E’ stato, nella oscura selva sociale carnica, una guida come Virgilio per Dante, come ho abbozzato in alcuni versi a lui dedicati, mai compiuti, nel 1995: “Hai preso per mano e guidato/ nei sentieri della storia/ un incompiuto, istinto di vita/  nella ragnatela della morte/ dell’anima./  Perché camminare?/ chiedeva il rinunciatario. So/ già dove mi porti, in un mondo/ di morti. Non sono tutti tarantole/ gli uomini, rispondevi antico,/ e con la mano premurosa/ levavi/ le ragnatele dagli orecchi.  / Ora senti, se pur confusamente,/ brusio chiacchiere voci pianti/ strida lamenti sussurri d’amore/ godimenti: libera i rumori/ che hai dentro e scopri la tua voce./ L’afasíco balbettava/ fin che modulava il suo nome,/ odiandolo. Panoramico guardati,/ distante da te come da giovane,/ quand’eri più forte del tuo dolore…”

Ne scrivo al passato, perché inevitabilmente un’amicizia che dura da oltre cinque lustri è intrecciata di ricordi, ma Romano è ben presente nella sua nobile e assorta figura, sempre combattivo, curioso e acuminato lettore di giornali e libri e della realtà, vicina e lontana, che ci circonda. Discutemmo un giorno del romanzo di Volponi Le mosche del capitale ed ecco che, pochi giorni dopo, arrivò con il libro del 1952 di Adriano Olivetti, Società, Stato, Comunità, per confermare la sua sintonia d’idee con lo scrittore urbinate, che si era formato proprio a Ivrea: un ideale di progresso sociale, fondato sulla conciliazione tra capitalismo sociale e socialismo liberale, che era poi, con tutte le contraddizioni, quello che aveva determinato il suo avvicinamento, tramite Fermo Solari, al Partito d’Azione,  a Giustizia e Libertà.

Un altro giorno lo vedo molto abbattuto: l’attuale Giunta regionale ha distrutto le Comunità Montane, figlie della Comunità Carnica: indignato mi guarda e come è solito, quando è in questo stato di tensione, col collo incavato nelle spalle e il mento sul petto, esplode in una furente condanna e riprende amaramente ad enumerare le spoliazioni subite dalla Carnia e dalla montagna friulana, ricordando, tra l’altro, il convegno che, col supporto del periodico Macchie, avevamo organizzato insieme a Tolmezzo nel giugno 1981 sul tema: Una proposta di sviluppo e di autonomia per la Zona Alpina (istituzione del Circondario come dall’art. 129 della Costituzione): anche i  comuni fallimenti ci hanno uniti.

Pochi anni fa mi consegnò un suo manoscritto: I due scogli morali di Caio Gracco, sorta di psicodramma con bellissimi passaggi descrittivi: Caio Gracco, sul punto di morire, è lo specchio, sereno e stoico del suo scacco: il tribuno della plebe sconfitto dal corrotto Senato-politicante e dalla voracità dei Cavalieri-faccendieri, ma anche da una plebe non cresciuta civilmente e culturalmente, nonostante tutti gli sforzi, per educarla e trasformarla da anonima ‘gente’ in cittadini.  Pensavo, appunto per questo suo contenuto autobiografico, di pubblicarlo ora, così come, in occasione dei suoi ottant’anni, avevo pubblicato il suo scritto visionario e onirico-allucinato, L’Ors di Pani, anch’esso ricordato nell’articolo citato di Magris, documento intenso di una esperienza biografica fondamentale: la dolorosa e sofferta conquista della ‘maturità’ – proprio in Pani aveva attrezzato un primo rifugio di armi e viveri per la Resistenza.

Invero, Romano, personalità complessa e sfaccettata, difficile da etichettare o da fissare in un’immagine statica, è (è stato) soprattutto un intellettuale non teoretico, ma pragmatico; un intellettuale alla Vittorini, che non ha “suonato il piffero” per nessun dogmatismo; o, se si vuole, come quello delineato da Norberto Bobbio in Politica e cultura del 1955, indipendente nel giudizio, servitore della verità, coscienza critica della società civile in rapporto  dialettico con il ceto politico: quanto basta per essere guardato con diffidenza un po’ da tutti: il prezzo della libertà.

Conoscitore di scienza e acuto lettore di opere letterarie (è sua la definizione di Siro Angeli come “scienziato del metro e dell’anima”), le nostre conversazioni spesso si allontanavano dalle delusioni della storia sulle orme di Leopardi, verso l’infinito, verso la libertà di mondi possibili, che continuano a vivere dentro Romano: “Solo attraverso l’istruzione di livello superiore e attraverso la cultura la Carnia potrà superare i suoi ritardi sociali ed uscire dalla marginalità economica”. Coerente fino in fondo con questa sua convinzione ha promosso con altri la creazione in collaborazione con l’Università di Trieste del Centro Botanico sul monte Pura ad Ampezzo; si è battuto per l’istituzione a Tolmezzo del Centro Plurilinguistico Internazionale (poi trasferito a Udine anche per l’insipienza dei carnici);  è stato tra i fondatori del Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia e, fino a poco tempo fa, per quasi un decennio, ha insegnato all’Università della Terza Età.

A questo punto dovrei ricominciare da capo e scrivere della moglie Lida, senza la cristiana vicinanza e ‘sopportazione’ della quale non avrebbe potuto vivere fedele  ai propri ideali e valori, ed essere l’uomo ch’è stato.