Cesclans: 20 anni dalla morte di Siro Angeli


di Walter Tomada

Vent'anni fa, il 22 agosto 1991, moriva a Tolmezzo a 78 anni Siro Angeli, tra le voci più alte del Novecento letterario friulano. Questo scrittore eclettico e libero dalla natia Cesclans salì al proscenio letterario, teatrale e persino televisivo di un'Italia che nemmeno sapeva dove fosse la Carnia: e molti la conobbero proprio attraverso l'immagine di Angeli, che interpretò il ruolo di Barbe Zef nell'adattamento filmico della "Maria Zef" di Paola Drigo portato sugli schermi da Vittorio Cottafavi. Per uno scherzo della società mediatica, nella memoria degli stessi friulani Siro Angeli è più noto per tale ruolo da attore che per la sua vasta attività di drammaturgo, sceneggiatore, poeta, romanziere che già da giovane partì dalla Carnia: ognun cui pòuc, cui tant – al tradisc  Jò j ai fat la mê part, – scomenzât pizzul -, cun mê màri e il gno paîs, scrisse. Dopo gli studi allo Stellini fu selezionato per la frequenza della Scuola Normale Superiore di Pisa, come un altro mostro sacro delle lettere friulane: quel Carlo Sgorlon che dopo la morte di Angeli propose di intitolargli il Teatro Nuovo sostenendo: «Angeli è uno scrittore in cui il popolo friulano può veramente rispecchiarsi e ritrovarsi, perché è un autore che condivide veramente l'inconscio collettivo dei friulani». Ma di intitolazioni non ce ne sono state.<br />
      A numerosi lavori teatrali e opere in versi, affiancò l'attività di critico cinematografico e teatrale per quotidiani e riviste, e lavorò in Rai dal 1955 per oltre 20 anni come vicedirettore del terzo programma e condirettore dei servizi di prosa radiofonici. Biografia e poesia si intrecciarono in lui in occasione della perdita della prima moglie Liliana, cui dedicò il canzoniere "L'ultima libertà" (1962). Fu un durissimo colpo e solo molti anni dopo, nel 1978, Angeli si sposò di nuovo con la poetessa Alida Airaghi, con cui andò a vivere a Zurigo. Pur lontano, visse sempre il legame con il Friuli in modo viscerale: e il terremoto del 1976 destò in lui la vena poetica in friulano. Raccolte suggestive come L'aga dal Tajament (1976) e Barba Zef e jo (1985).

 

Una risposta a “Cesclans: 20 anni dalla morte di Siro Angeli”

  1. SIRO ANGELI: UN POETA VERO
    «Voce scarna, impietosa, definitivamente vera e umana» (E. Bartolini)

    La prima edizione semisconosciuta del 1960 del suo capolavoro poetico: Il grillo della Suburra
    di
    Ermes Dorigo
     
    Forse pochi, dei non molti che conoscono l’opera di Siro Angeli, sanno che del poemetto Il grillo della Suburra esistono non due edizioni (Barulli, 1975) e Scheiwiller (1990), ma tre;  la prima redazione, infatti, fu  pubblicata sulla rivista Segnacolo (anno I, n. 5, settembre-ottobre 1960);  la stesura inizia verso il 1955 e si pone a ridosso della rielaborazione del lutto per la recente (1953) perdita della giovane moglie Liliana in rime rarefatte, stilnoviste e petrarchesche come le hanno definite i critici, che confluiranno nella raccolta L’ultima libertà (Mondatori, 1962): mentre scrive ‘rime d’amore’, elabora un poemetto di impegno etico-civile, che attraverso la descrizione di una Roma «tragica e disumana», come l’ha definita Carlo Sgorlon, denuncia, la disumanizzazione, appunto, provocata dalla società dei consumi e della tecnologia, che riduce il tempo ad un tempo totalmente coatto alla produzione con, sullo sfondo, la distruzione della natura causata dalla cementificazione nel periodo del boom economico.
    Come mai questa contradditoria ‘contemporaneità’? Le ipotesi che si possono fare sono, a mio avviso, due: la prima è che Angeli, in questo periodo, vive una duplice sofferta crisi, esistenziale  e storico sociale, alle quali tenta di dare una risposta, per ricostruire la propria identità frantumata, con due modalità espressive, oltre che contenutistiche, diverse: classicistica l’una, di toni visionari e talora  espressionistici l’altra;  la seconda, che pare confermato dall’uscita a ridosso dell’edizione Barulli (1975) della raccolta poetica, dedicata ancora alla moglie perduta, Matia mou (Rebellato, 1976) è che Angeli tenti una conciliazione tra la ‘vita data’ ( i genitori, la Carnia) e la ’ vita voluta’ (Liliana, la Toscana) con una prevalenza del richiamo alle radici (nel 1959 scrive due poesie in friulano, Nedâl e San Stièfin, che confluiranno nella raccolta L’âga dal Tajament, guarda caso del 1976) e all’impegno morale, che aveva caratterizzato la sua prima produzione drammaturgia, la cosiddetta ‘trilogia carnica’ soprattutto; ricerca e scelta di continuità confermata dal fatto che la raccolta Dabrace a cenere, Lacaita 1986, si apre con un poemetto che richiama ancora la Suburra e che nello stesso anno esce la silloge poetica in friulano Barba Zef e jò..
    Quanto a questo poemetto, che rivela molte sorprese, che cercherò di evidenziare nel prosieguo di questo scritto, esso è composto di 387 versi divisi in sette sezioni, formate ognuna da un’unica strofa di varie lunghezze di settenari; il Barulli e lo Scheiwiller sono, rispettivamente, di 547 e 539 versi anisosillabici – ottonari  novenari in prevalenza ed anche decasillabi e pochi settenari – divisi in nove sezioni di strofe polimetre: la diversità emerge già evidente, ma pone subito un problema numerologico: sette e nove, considerando che in tutti e tre i poemetti uno strato linguistico è quello biblico-evangelico filtrato attraverso Dante («bolge, gironi»), hanno un valore simbolico? A mio avviso sì: il sette rappresenta la somma delle  quattro virtù cardinali e delle tre virtù teologali; il nove, lo sappiamo almeno da Dante, è multiplo del tre, che rappresenta la Trinità.
    Nella sua struttura il poemetto risente della pratica di drammaturgo e sceneggiatore di Angeli: possiamo infatti affermare che le sezioni corrispondono ad atti e scene e che  un occhio-obiettivo  inquadra e registra come una cinepresa o telecamera un ambiente urbano con i suoi rumori: vista e udito, come nella tradizione classicistica, sono anche qui i  sensi privilegiati e più nobili. E per Angeli, cui come poeta la società consumista nega il ruolo sociale, che ad esso assegnava quella preindustriale, nella  quale culturalmente s’era formato, la ricostruzione della propria identità non può che iniziare dal recupero delle proprie radici culturali, che culminerà nell’allusivo finale accenno alla perdita e, quindi, alla necessità di recuperare le proprie radici umane, attraverso un confronto-emulazione, che liberi la crisalide in farfalla, con i suoi modelli della tradizione classicicistica, di cui s’era imbevuto, e  con alcuni poeti contemporanei, coi quali avvertiva consentaneità (l’amico Caproni: Stanze della funicolare, 1952; Il seme del piangere, 1959) e distanza (Pasolini: Il pianto della scavatrice in Le ceneri di Gramsci, 1957: mentre  il poeta-gatto faceva emergere quanto di umano e popolare ancora sopravviveva nel degrado delle periferie, il poeta-grillo, apocalittico e disincantato, vede solo dei «dannati»: pensiamo alle parole   «sorte, pena» e al  movimento sinuoso dei tram, che richiama  quello del serpente tentatore; quindi, la caduta dopo la colpa originale, espiata con una vita deprivata di vita: la condizione storico-sociale metaforizza una condizione esistenziale universale, come testimonia il deittico “Qui”, che apre il poemetto, che ha la stessa valenza metaforica del “Qui”dell’incipit de La ginestra di Leopardi. In pratica il poemetto, al di là dei contenuti, è come un grumo di riferimenti, di calchi linguistici e di allusioni situazionali, attraverso i quali Angeli chiama a raccolta gli autori più amati, quasi come riassunto-riepilogo della propria identità culturale e come richiesta di sostegno, affinché essi lo aiutino a riappropriarsi dell’identità perduta; il punto di partenza, lo rivela l’uso dei settenari, il suo modello ideale di moralità, civismo e culto della forma non disgiunta dal didascalismo, è il Parini delle Odi.  
    Ma riassumiamone brevemente il contenuto: nella canicolare notte del 24 luglio 1959 il poeta dal terrazzo (la torre d’avorio si è trasformata in una «altana») della sua casa, situata nella zona dell’antica Suburra, rivolge uno sguardo panoramico, che spazia su tutta Roma, e registra quello che vede e quello che sa accadere in altre ore della giornata: siamo immersi in  un tempo misto che comprende anche il tramonto e si distende fin verso l’alba. Innanzitutto il traffico coi suoi rumori di macchine antropomorfe, come in un mondo capovolto, nelle vie Cavour e Fori Imperiali, in mezzo al quale si muovono affannati uomini trasformati in «automi» («non più vivi, ombre, fantasmi, lemuri, turba», consunta dalla «carie/dei giorni e delle notti», che richiama «odio l’usura del tempo» di Rebora), dalla schiavitù dei «microtempi», che si affannano al rientro a casa o dal mare o dal lavoro, e vengono inghiottiti dalla metropolitana («grembo» infecondo), dove «alfine/il buio li dissolve».  Essa, un vero e proprio inferno dantesco, è «un Erebo, uno Stige, una gorena» soffocante, piena com’è di «sulfurea caligine» e di «vapor igneo», una «città di Dite, una «gehenna»,  una «babele» piena di «miasmi» e di «mefite». In superficie una massa di «morti viventi, paria periferici» attraverso una «valle di Giosafat precaria» si affanna verso una periferia degradata (dove tra «scoli/piovani e stercorari», gli uomini sono al pari degli animali tra «ammassi/ di immondizie, ove mani/ pazienti cartastraccia/ e guaste masserizie/ rovistano, ove cani/ in traccia d’ossa e urine/ raspano a musi bassi»), utilizzando i mezzi pubblici dal «ganglio» di piazza dei Cinquecento;  sempre coatti dalle «maglie» degli orari e in mezzo ai gas di scarico si affannano a salire e a scendere dai mezzi autofilotranviari («prede, vittime», sigillate «come in bare di vetro»), sui quali per un attimo, grazie ad un moto impercettibile del cuore, sembrano rivelare ancora una umana identità di «creature», subito annullata dal ritmo infernale di una non-vita, ma che rivela un sentimento di pietas del poeta fino a questo …

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