Colonia Caroya: quel sogno della terra dove vecchi e giovani si riconoscono nella “famee”

di Piero Villotta

Colonia Vicente Agüero è il piccolissimo comune adiacente alla poco più grande Colonia Caroya. A dispetto del nome ufficiale qui lo chiamano San Durí, cioè Sant’Odorico in friulano, perché i coloni che lo fondarono erano devoti a Sant’Odorico, lo stesso protettore del paesello in riva al Tagliamento vicino a Dignano. Chi arriva per la prima volta nella sua piazza principale, dedicata a San Durí, ovviamente, fa la stessa faccia di Claudia Cardinale quando scende dal treno a Bun Bun Ga, in Australia, dove vive il promesso sposo, Alberto Sordi, che pur emigrato intende sposare una compaesana. 25 ettari di piazza, sterrata, con rari alberi. Un monumento a San Odorico al centro che si perde nella vastità dell’area, un municipio di poche stanze, una chiesetta, qualche raro fabbricato. La piazza, dice il sindaco, era stata pensata per contenere le case di tutte le famiglie del paese, invece i coloni, dissodati i campi, vollero fare le case ciascuno sul proprio podere: i venticinque ettari al centro rimasero liberi, e lo sono tuttora. La storia di San Durí è più o meno la stessa dell’adiacente Colonia Caroya, con la quale forma un unico ambiente colonizzato, ma (probabilmente anche a causa dell’imponente patrimonio genetico friulano, derivato dal fatto che a colonizzare quelle terre i friulani giunsero alla fine dell’800 con mogli al seguito) ben presto hanno trovato modo di dividersi per una questione di diritti sull’acqua. «E ce, scherzino, nô doprìn la nestre aghe e vô la uestre». Friulanissimo, non fa una piega. Esempi omologhi ce n’è ovunque suoni il ce fastu. Ma la storia è la stessa, profondamente romana e non me ne vogliano i friulanisti “filoceltici”. Facendo un salto indietro di venti secoli troviamo il governo romano che centuriò le terre conquistate, le assegnò ai legionari congedati, divenuti coloni, che a forza di pala e piccone, nei rigorosi confini della centuriazione, dissodarono i campi, portarono l’acqua, costituirono famiglie e paesi, crearono comunità. È successo lo stesso. Arrivarono in quest’area, allora totalmente inabitata, col miraggio di divenire proprietari della loro terra, 25 ettari per famiglia che l’Argentina assegnava quasi gratis. Il sogno si poteva concretizzare solo oltreoceano, tagliando ogni ponte con la vita passata. Ma la prospettiva era di «deventà bacàns, magari fur dal mont, ma bacàns» (il bacàn, in Friuli è il contadino proprietario della terra che lavora, a differenza del sotàn che è il mezzadro o il fittavolo e lavora la terra del paròn). Così, inseguendo un sogno, vendendo tutto ciò che avevano per comprare il biglietto, partirono, la gran parte dal Gemonese, verso l’ignoto. Credevano di trovare una pianura: hanno trovato boschi. I campi li dovettero fare spiantando alberi e radici, a mano. Pochi anni dopo arrivò il colera. Un prete, ispirato dalla fede e forse dalla disperazione, portò in processione l’immagine della Madonna di Montserrat. Di lì a pochi giorni cessò il colera. La chiesa del paese i friulani forse avrebbero voluto dedicarla alla Madonna di Castelmonte, ma con la gratitudine non si scherza. Il Friûl al ringrazie e nol dismentée. La chiesa parrocchiale è dedicata alla Madonna di Monserrat, ma alla Madone di Mont si tributa un culto del tutto particolare. Dio, Patria, Famiglia. Neanche dissodati i campi, i coloni si misero a costruire la chiesa e contemporaneamente le case, sui modelli visti in Friuli, con una variante per le stalle perché qui l’allevamento era diverso. Dunque Colonia Caroya costituisce un unicum. La popolazione è quasi totalmente friulana, ma anche dal profilo socio-economico è diversa. Tutt’attorno alla centuriazione caroyense ci sono latifondi. I trattori corrono per chilometri senza cambiare direzione. Qui no. C’è la piccola proprietà contadina. Sembra di essere a Basagliapenta o a San Durì, frazione di Flaibano. Qui il fogolâr è ancora il centro della vita sociale del paese. È insieme memoria, identità, occasione di socializzare. Qui si fanno i corsi di friulano e di italiano, si canta e si suona, si balla, si fanno le cene. E i ragazzi vengono. C’erano tutti ad ascoltarmi quando ho detto loro quel che sapevo e che potevo sulla condizione giovanile in Italia. Mi hanno subissato d domande. Alla fine mi hanno voluto al loro tavolo per una picada de salame. Sono argentini, ma orgogliosi della loro storia particolare, delle loro origini. Moltissimi sono venuti in Friuli per gli scambi. Adesso vogliono ospitare là giovani friulani. In una logica di scambio «che non costi» (sono friulani fin da piccoli). Ovviamente vivono il loro tempo. Adorano il web che ha aperto loro le porte del mondo. Sono interessati ai lavori nuovi, quelli da inventare, sia in agricoltura sia nei sevizi. Modernissimi, ma ancorati saldamente alle loro radici, alla loro famèe.