Friuli: Cappello e Villalta raccontano Pasolini e il Friuli

di Paola Dalle Molle.

La conoscenza di Pier Paolo Pasolini, controverso e irripetibile intellettuale, non può prescindere dalla stagione friulana della sua attività poetica. Per questa ragione, il Centro Studi Pasolini di Casarsa organizzerà due giornate di studi, il 16 e 17 novembre, intitolate: Pasolini e il Friuli. Immagini e parole con tre momenti: un convegno scientifico, un’esposizione fotografica firmata da Danilo De Marco, un appuntamento di letture. Una manifestazione realizzata con il sostegno della Regione Fvg, della Provincia di Pordenone, della città di Casarsa della Delizia e di Banca FriulAdria. Premessa: il momento è difficile, non ci sono schiarite. Lo ha affermato l’assessore regionale alla Cultura, Elio De Anna, intervenuto ieri nella sede della Regione, a Pordenone, alla conferenza stampa con la quale il Centro Studi ha presentato la sua iniziativa spiegando nella stessa occasione, le prospettive della cultura friulana, chiamata a affrontare un drastico taglio di fondi nel bilancio regionale per il 2013. «Passare da 34 a 12 milioni significa tagliare drasticamente i contributi. Ma questa situazione deve divenire anche lo stimolo per pensare alla cultura in termini diversi, a esempio, coinvolgendo i privati nei progetti per avere finanziamenti nuovi». Il sostegno del Comune di Casarsa e della Provincia di Pordenone alle iniziative del Pasolini è quindi stato portato dal sindaco, Lavinia Clarotto, e dall’assessore provinciale alla Cultura, Nicola Callegari. «Si tratta di un progetto di grande valore» affermano la presidente e la direttrice del Centro Studi, Teresa Tassan Viol e Angela Felice, illustrando il programma dell’iniziativa, che vedrà giungere a Casarsa studiosi non solo dalle Università del Friuli Vg (quella di Udine in particolare patrocina l’evento), ma anche da altri atenei e organismi culturali italiani. Tra gli appuntamenti, venerdí sono in programma i lavori dedicati al Pasolini poeta friulano nel quadro della poesia dialettale in Italia nel Novecento e alle 19.30 (nella Casa Colussi- sede del Centro Studi) l’inaugurazione della mostra fotografica di Danilo De Marco La perduta gioventú: le foto saranno poi donate da De Marco al Centro Pasolini, che arricchisce cosí le proprie collezioni. Conclusione alle 21.30 nel Teatro Pasolini, con lo spettacolo Lengàs dai frus di sera. Sabato mattina, tavola rotonda su Una mappa poetica dialettale, cui seguirà il dialogo fra i poeti Pierluigi Cappello e Gian Mario Villalta e la presentazione del volume Pasolini e il teatro.

Una risposta a “Friuli: Cappello e Villalta raccontano Pasolini e il Friuli”

  1. ermes dorigo

    IL PASOLINI DI VOLPONI
    Personalmente, ritengo si debba pensare a dare il giusto rilievo al’interpretazione che della sua vita e della sua opera dà Paolo Volponi, che di Pasolini fu amico fraterno dal 1952 («Abitava in via Fonteiana, dove io ebbi la fortuna di incontrarlo e di conoscerlo, frequentando anche la sua casa e legandomi d’affetto anche con i suoi genitori. Anche con il padre, appartato e accigliato, che però era sempre molto orgoglioso nel mostrarmi le poesie di Pier Paolo, pubblicate o tradotte»).
    Entrambi maturano in quel punto di snodo della cultura italiana degli anni dal 1945 al 1955 circa, caratterizzato da antiermetismo e antineorealismo, su una linea neosperimentale, che si scontrerà, Pasolini soprattutto, anche con la neoavanguardia, e li terrà uniti, soprattutto il comune legame con la nostra tradizione storica, culturale e letteraria e con la lezione di poesia etica e civile che veniva da Dante e dal suo plurilinguismo.
    L’atteggiamento di Volponi nei confronti di Pasolini, per lui «maestro sapiente e amico fraterno», è di avvicinamento, consonanza, consentaneità e, nello stesso tempo, di distanziamento, dissonanza, distanza. Infatti, se comune era solo la matrice culturale, ma anche un grumo di dolore interiore, diversa era la soluzione che i due diedero alla ‘gabbia dell’io’ come lucidamente dirà Volponi: «Scrivevo delle poesie per ‘venire fuori’, per non essere schiacciato dalla regressione, dall’ansia, dalla paura. Lui capiva benissimo queste cose, anche se io lottavo all’interno di quel conflitto mentre lui lo subiva radicalmente».
    Qui divergono le strade; e mentre l’uno rimarrà legato al mito della ‘madre-società’, una madre primigenia e rurale («il cortile inazzurrato delle Alpi»), perchè Pasolini del popolo «non ha accettato interamente la storia, ma soltanto l’umanità», l’altro perseguirà il progetto-sogno, utopia, mito? – della madre-industriale.
    Però Pasolini non rimase del tutto prigioniero del narcisismo, come ci fa capire Volponi nella sua ultima opera poetica, Nel silenzio campale; «Pasolini si sentiva ferito; colpa e delusione/opprimevano il suo cuore e anche la sua intenzione/di opporsi, di avvertire; la sua stessa disperazione/gli dava la coscienza della vita e la concrezione/ della propria vitalità: quindi la destinazione /civile e letteraria sopra l’espressione di sé».
    Pasolini uomo («maestro misurato, dolce, paziente, ironico, didattico; socratico innocente quanto disperato; portatore di serenità, di aiuto, di consigli; affascinante conservatore dal sorriso mite e triste, un dolce sorriso comprensivo e rassegnato» divenuto alla fine «ansioso e un po’ incerto, sempre più triste, emaciato e solitario») che diventa il Pasolini-allegoria di una «stagione/di dubbi e di ricerca, ansia di comprensione,/viva e proponente ideologia» contrapposta alla presente, nella quale «non si possono più intra-/prendere viaggi, né sono pra-/ticabili percorsi di conoscenza; /non ci sono più luoghi di contra-/sti e di formazione, non la veemenza / dei maestri»: rimpianto, ma senza il ‘rimorso per la religione/del mio tempo’ per 1’urbinate.
    Volponi in Pasolini vedeva il limite della sua «posizione regressiva, astorica, nemmeno utopistica, ma soltanto di rimpianto per il bel mondo rurale», talora «senza un sicuro sostegno ideologico», per cui se era stato bravo a prevedere «il disastro ecologico, l’omologazione delle culture, la rovina delle città, lo sviluppo sfrenato del consumismo, la graduale dispersione della coscienza critica e democratica, l’imbonimento e la mercificazione della lingua, dell’arte, della letteratura», non lo era stato altrettanto nell’individuarne i rimedi, in quanto «alla fine, ne ha fatto un mistero mistico-letterario».
    Ma allora qual’è l’essenza dell’insegnamento del ‘maestro’ Pasolini, a trentasette anni dalla sua morte?
    Pasolini secondo Volponi è stato «un grande poeta civile, forse il più grande poeta della nostra letteratura dopo Leopardi, superiore a tanti del secolo scorso e del nostro, anche se celebratissimi, amatissimi, premiatissimi». Poeta civile.
    Volponi ritiene che la stagione più fulgida dell’amico sia stata quella tra il ‘55 e il ‘63; poi deviò, vuoi per la grande ostilità della neoavanguardia, che lo ferì profondamente: («cominciava a chiudersi in se stesso, ad avere degli allarmi sentiva che l’umanità degli affetti, che la sua psicologia in qualche modo esigeva, gli era negata»), vuoi perché si lasciò sedurre dal cinema e dal successo («era ambizioso in un modo un poco infantile»), che, sostanzialmente, lo distrasse dalla letteratura, facendolo «regredire un tantino: non era più il grande poeta, critico e uomo di lettere che veramente poteva improntare di sé la nostra epoca».
    Per Volponi ciò che veramente dura di Pasolini e che costituisce saldo e sicuro punto di riferimento per la cultura democratica dell’Italia è la sua poesia civile e il suo modello di uomo di cultura-pedagogo, che aveva capito come «il nostro popolo fosse estraneo ad ogni possibilità reale di partecipare e di scegliere; come fosse costretto – nei suoi dialetti, nelle sue piazze, nei suoi gruppi – a vivere una vita per certi versi ricca di rapporti, ma alla fine deprivata dalla cittadinanza, della possibilità di decidere». Profetico!
    La mancanza nella cultura italiana «è stata soprattutto quella di non assumersi la propria responsabilità di impegno civile e sociale, come sostegno e guida dei suoi valori specifici» e di lasciare spazio o di indulgere alle sottoculture, che fanno dell’assassinio di Pasolini un «delitto politico» perpetuato e voluto, in fondo, «dall’inconscio collettivo di strati piccolo-borghesi, bigotti e presuntuosi», da quel ventre molle della nostra società, regressivo e autoritario, impastato di controcultura, immaturità psicologica, ignoranza storica: «La morte appartiene alla vita di Pasolini, ma non certo come scandalo o esasperazione letteraria e tanto meno come oscura vocazione al suicidio: le appartiene intimamente per la sua essenza esemplare, didattica; perché diventa l’atto conclusivo dell’insegnamento e lo svela per intero, dando alla vicenda personale una ampiezza storica».
    Pasolini aveva «un amore e un senso del nostro paese che dà speranza anche in questi momenti in cui sembra che tutto sia rotto o stia per sprofondare, ancora nello stesso buio della regressione storica», per cui bisogna guardare alla sua vita e alle sue opere «come luce e materiale per la nostra cultura e anche per la costruzione della nostra democrazia».

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