Friuli: le foto di Ulderica per non dimenticare gli usi e i mestieri che rischiano l’oblio

di Melania Lunazzi.
Lo sguardo sensibile di Ulderica da Pozzo su una terra vitale e al tempo stesso antica come il Friuli Venezia Giulia, dalla montagna al medio Friuli, in un percorso che segue il fil rouge del confronto tra il lavoro dell’uomo e quello della natura. Una riflessione su ciò che di buono negli ultimi anni l’iniziativa di singoli ha portato alla rinascita di terre, paesi e luoghi da decenni abbandonati e di contro sul senso di perdita che le cessate attività agrarie e artigianali portano all’essere umano, con il conseguente oblio di mestieri e sapienze correlate. Un binomio che non comporta giudizi e scelte di campo, ma che documenta, coglie, riflette, per aprire nuovi squarci di luce nella memoria collettiva. Aprono due mostre della da Pozzo, a Gemona e ad Artegna. Si tratta di “Voci d’erba e di terra: gesti, volti e riti della tradizione” – da ieri al 30 settembre a Gemona, nel Palazzo studio del fotografo Di Piazza – e di “Tracce di vita contadina”, che inaugura oggi alle 11 – fino al 26 luglio – nella cornice del Castello Savorgnan di Artegna con l’intervento dello storico della fotografia Fabio Amodeo. Nella prima si attraversano, in una galleria di quaranta piccoli ritratti e trenta pannelli grandi, località, volti e attività colti dall’obiettivo della fotografa carnica fra Tarvisio e Gemona; nell’altra c’è uno sguardo allargato alle attività delle campagne friulane tra le Valli del Natisone e il Medio Friuli. Si parla di spazi recuperati e di spazi abbandonati in un doppio itinerario. A Gemona in molti scatti sono protagonisti il verde e l’erba: «In Val di Resia mi hanno colpita le coltivazioni di aglio – dice la da Pozzo. Ci sono andata ai primi di giugno e il verde era davvero dominante. C’era una signora che stava lí in mezzo a quelle distese e sembrava quasi una maori. Mi colpiscono certi scorci, come il vecchietto con l’orticello tenuto bene o anche i campi con l’erba attorcigliata, che dicono molto. L’erba racconta molto di come è stato vissuto un posto: se è leggera significa che è stata tagliata altrimenti è spessa e attorcigliata». Ad Artegna lo sguardo si sposta «su ciò che rimane e sta per scomparire delle attività agricole». «A Gemona c’erano 14 latterie, una per frazione, mentre oggi ne sono rimaste tre, e sono presidio slow food».

Una risposta a “Friuli: le foto di Ulderica per non dimenticare gli usi e i mestieri che rischiano l’oblio”

  1. Ti ricordi Ulderica?
    L’antichità dei vecchi

    Il rischio, per una mostra come quella di Ulderica Da pozzo (Il fum e l’âga, galleria di ritratti fotografici di ultranovantenni della Carnia) è quello di venire circoscritta in ambito localistico; esteticamente valida, ma pur sempre etnograficamente (anche se è importante) documentale di una modalità d’essere vecchi in una zona marginale, perdendo di vista le implicazioni storico esistenziali di essa e il filo, grigio e/o bianco in questo caso, che la collega con le meditazioni generali sulla vecchiaia, sulle problematiche che essa pone, che si svolgono in Italia e nel mondo: ho in mente i libri e gli interventi De senectute di Bobbio, Levi, Bo, di don Pier Luigi Di Piazza – Morire oggi , per restare in ambito regionale, e il libro a due voci di Rossana Rossanda e Filippo Gentiloni, La vita breve, e come riferimento più specificamente intertestuale, per quanto riguarda libro catalogo della mostra, il bellissimo libro edito da Einaudi di Paola Agosti e Giovanna Borgese, Mi pare un secolo, nel quale sono fotografati i grandi vecchi della cultura mondiale del Novecento, definito da Gesualdo Bufalino “di poco miele e tantissimo fiele” , ma giudicato, nonostante tutto, positivo, per esempio, da Rita Levi Montalcini, nella quale “l’ottimismo e la serenità sono sempre stati più forti della paura e dell’inquietudine”, come direbbe anche qualche vecchia ritratta da Uderica.
    Qualcuno, con sarcasmo un po’ macabro, riferendosi all’innalzamento dell’età media, ha affermato che non di vita breve si deve parlare, ma di lunga morte, toccando, in verità, il tragico tasto della condizione di rimozione, in cui sono relegati tanti vecchi (non tutti, le differenze di classe esistono) e di solitudine esistenziale (questa sì comune a tutti) nella nostra società dell’eterno presente. Quei vecchi che ci guardano e ci scrutano, in realtà ci giudicano e ci scuotono, ci inquietano, perché ci riportano bruscamente nella dimensione della temporalità, della nostra fragilità creaturale o naturale, credenti o laici che si sia, all’enigma del venire alla vita e del finire, nell’eternità o nel nulla, attraverso il tragico e arcano varco nero della morte.
    I vecchi, dunque, ci costringono a riflettere sulla vita e sulla storia, sul tempo individuale e su quello collettivo, sulla memoria e sul passato; il ricordare dovrebbe essere un valore etico, di amore per chi e per ciò che è stato, mentre, come sottolineavo, la nostra società esorcizza la morte naturale quella sociale, dell’emarginazione e dell’abbandono, l’accentua e gode, in genere, della rappresentazione virtuale della morte, al punto da rendere insensibili alla morte vera in un eterno presente, rifiutando il passato: invero esso ci riporta a ciò che è stato, a ciò che è morto e che sarà morto, quindi, alla nostra morte, che non si è più capaci di accettare e di affrontare; e il modo di porsi di ogni individuo e di ogni collettività di fronte all’ineludibile passo della morte ovviamente ne condiziona l’essere nella vita e per la vita. Diciamocelo chiaramente: non solo non sappiamo più morire, ma sempre meno sappiamo invecchiare con dignità; anzi si accentuano i fenomeni di cannibalismo psicologico, per cui adulti divorano, metaforicamente, giovani, sostituendosi a essi con furti di giovinezze e rendendoli senza futuro, e vecchi divorano a loro volta adulti, impedendogli di essere interiormente liberi e di vivere autonomamente e responsabilmente e bloccandoli nel momento in cui potrebbero e dovrebbero dare il massimo per se stessi e per la collettività. Ricordo che all’amico Paolo Volponi, che cominciava a sentire il peso degli anni e che mi diceva, col suo sorriso timido e ironico: “Tutti i vecchi sono buoni!”, risposi: “Quelli buoni”; perché, in effetti, bisogna avere il coraggio di distinguere e di evitare arcadie e genericità: nell’odierna confusione di ruoli e di terrore della morte, la nuova vecchiaia rischia di diventare sempre più ringhiosa e rancorosa. Né i padri e le madri e i vecchi d’una volta erano tutti stinchi di santo! Ce lo fa capire chiaramente con la sua testimonianza Giovanna Schneider, di Sauris di Sopra, mal trattata dal padre; il suo ritratto è emblematicamente allegorico, come dev’essere per una fotografia artistica che all’intento documentale unisce sempre una valenza simbolica, anche inconsapevole, dalla quale possiamo trarre degli insegnamenti. Innanzitutto dalla scritta in alto a destra:.”Essendo eredi/ insieme/ della grazia della vita”. La vita, con tutti i suoi disincanti e le sue amarezze, ma anche con le sue gioie, dev’essere vissuta intensamente e accettata nella sua tragica bellezza. Ciò che colpisce in lei e negli altri vecchi ritratti è il contrasto tra le crespe, le rughe, l’affaticamento del corpo e la vivezza, fermezza, chiarezza degli occhi: se essi sono, come si dice, lo specchio dell’anima, allora significa che la forza interiore è “irriducibile e indomabile”, se la si sa nutrire anche del dolore del vivere.
    Giovanna sembra in bilico tra l’essere e l’essere stata, tra il visibile e l’invisibile, tra tenue emersione dall’albero genealogico sullo sfondo e immersione dissoluzione in esso, sul punto di metamorfizzarsi in ramo della pianta, ma con volto fermo e consapevole. E allora dobbiamo recuperare questa concezione naturalistica della vita la giovinetta raffigurata sulla sinistra contralta con Giovanna nella metafora del ciclo della vita, che non ha certo la disperazione delle Età della donna di Klimt; vestita di primavera (la natura si rinnova spontaneamente, l’uomo rinnova con la volontà e con il ricordo), invita a rendere omaggio alla pianta e alle radici, non quelle a fittone, che isolano e chiudono, ma quelle fascicolate che si diramano e si aprono in ogni direzione e ci fanno capire la nostra specifica in essenza al mondo e a una pluralità di culture e della morte, come fine individuale naturale, ma anche come inizio della sopravvivenza nel ricordo, nella vertigine delle generazioni in cui si dissolve la contingenza del tempo e del passato e rimane, invece, il sentimento atemporale dell’antico, che narra miticamente attraverso i volti dei vecchi la condizione esistenziale universale di tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
    Da questo punto di vista, come persistenza dell’antico nel presente, tutti i vecchi fanno tenerezza, tutti i vecchi sono buoni, perché c’insegnano come vivere la nostra mortalità e a opporre alla distruzione del divenire il tempo costruttore della memoria.

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