Friuli: il grido di dolore della Carnia, troppo facile esortare alla speranza

di Delio Strazzaboschi Prato Carnico.

Il grido di dolore della Carnia nC’è chi sostiene che con la nota crisi aziendale la Carnia perderebbe ogni speranza. Ma per poter perdere qualcosa bisogna prima possederla! Non avevano speranza i lavoratori che negli anni ’70 lasciarono la loro terra per emigrare nella periferia industriale di Udine. Non si trattava solo di domanda di lavoro dovuta all’ultima fase del boom economico; c’erano state le lotte dell’autunno caldo, pur vissute in montagna da una minoranza, e la conseguente consapevolezza che qui il lavoro non solo era miseramente retribuito, ma si otteneva e si manteneva solo a condizione d’aver la testa sempre chinata al padrone e al prete. Andarsene era sì bisogno, ma soprattutto dignità. La retorica sociale degli anni seguenti tentò di riscrivere tale fenomeno come forma di viltà, per cui sarebbero stati più coraggiosi quelli che rimasero, continuando ad servire una realtà iniqua. Poi ci fu il terremoto del 1976: ulteriore sottomissione ai medesimi poteri, lavoro, non per tutti, e case nuove non per tutti ma per molti montanari che avevano subìto ben pochi danni. Negli anni 80-90 (psi egemone, dc ricattata, pci asservito) la politica occupò militarmente la società civile, anche in Carnia. Con voto di scambio, parentopoli e corruzione (e conseguente indebitamento dello Stato per generazioni), fiorirono anche in quota i baby pensionati, si moltiplicarono le assunzioni clientelari nella pubblica amministrazione, e non solo, e gli interventi pubblici in economia e nel sociale. Se prima si trovava lavoro da figli di democristiani, poi bisognava essere socialisti, infine, superata ogni remora, semplicemente coniugi/figli/amanti/parenti/conoscenti di qualcuno che un po’ comandava. Naturalmente a tutti gli altri cui il lavoro veniva negato (perché s’illudevano di ottenerlo con il proprio curriculum di buona volontà, intelligenza ed esperienza) rimaneva la derisione, il sorriso neanche trattenuto di chi aveva saputo risolvere, ancorché servilmente, i propri bisogni. Il risultato è che pigri e inetti sono ora maggioranza ovunque, nell’apparato pubblico e forse perfino in quello privato. E, visti gli esiti, anche nelle cooperative: traditi i propri storici ideali, evidentemente la maggioranza dei nominati ed assunti non lo era per i propri meriti. Peraltro anche i feudi del potere carnico sono ancora e sempre occupati dagli stessi individui, vecchi perfino anagraficamente. Ed è ridicolo pensare che una minoranza di privilegiati che in vita non ha mai sofferto di nulla possa davvero risolvere l’attuale crisi della montagna. C’è quindi da chiedersi come il recente immane grido di dolore per la montagna stessa possa riguardare tutti indistintamente e indipendentemente dalle responsabilità (delle istituzioni e dei singoli). Ogni giorno i muratori di Paularo partono alle cinque per andare a lavorare a Trieste, operai e impiegati vanno a Udine e anche più lontano (mentre pubblici dipendenti vengono in Carnia addirittura in corriera) e coloro che, pur meritandolo, in montagna un lavoro non l’hanno avuto, o se lo sono inventato o se ne sono andati per sempre. A tutti costoro non basta certo il suono di una fisarmonica o una storiella in friulano a far dimenticare la vera natura, tanto vile quanto feroce, di parte dei governanti e perfino di parte degli abitanti di questa terra. Troppo facile esortare alla speranza, e troppo poco.