Friuli: “Non ti farò aspettare” il nuovo romanzo di Nives Meroi

di LUCIANO SANTIN.

Le montagne rombano, squassate dal terremoto, i seracchi crollano come immensi dòmini di cristallo, le valanghe si scaricano a valle, anche su campi base la cui sicurezza appariva certa. E, piú sotto, la fisionomia del territorio muta dolorosamente, come quella di una persona cara colpita da un male terribile. Quelle ore drammatiche vedono andare in stampa, per i tipi di Rizzoli, “Non ti farò aspettare – la storia di noi due raccontata da me”, l’ultimo libro di Nives Meroi, in libreria da domani. Vi si raccontano un Nepal che oggi è ferito e in parte cancellato, e un’esperienza umana esemplare e forte, iniziata male, ma finita bene. La malattia fa irruzione nella vita di Nives e Romano Benet, coppia fortissima non solo atleticamente, e i due rispondono con la complicità, con la capacità di attendere, con la voglia di reagire senza scoraggiarsi mai. “Non ti farò aspettare”. È una promessa. È quello che dico a Romano, nel 2009, quando siamo sul Kangchendzonga, il nostro dodicesimo Ottomila, e a quota 7500 lui si sente male. «Portiamoci a 7600, piantiamo il campo, poi tu vai in vetta e io aspetto. Tanto ci sono anche altre spedizioni», mi propone. Gli rispondo «Non ti farò aspettare». E cominciamo a scendere, immediatamente. Era ancora aperta la corsa per essere la prima donna a salire tutti i 14 giganti himalayani. Quanto è stato difficile rinunciare? Non lo è stato per nulla. Romano e io veniamo da queste montagne, dove abbiamo maturato un alpinismo autosufficiente dal punto di vista fisico e psichico. Una pratica rimasta a misura d’uomo anche sugli Ottomila, dove succede anche che gli scalatori passino a pochi metri da un morente, senza badargli, perché la tassa per la cima costa molto, la finestra di bel tempo dura poco, quindi il risultato deve esserci a tutti i costi. E poi… E poi? E poi noi due avevamo salito assieme tutte le altre cime. Valeva la pena di dividere la cordata? Sapevo bene come le condizione fisiche possano rapidamente decadere, a quelle quote, quindi non ho pensato neppure per un momento alla possibilità di passare la notte lassú. Poi, però, anche la montagna, per cosí dire, non ci ha fatto aspettare. Vale a dire? Il Kangchendzonga, che ci aveva posti di fronte alla linea d’ombra della scelta, al termine di una scalata fisica e morale durata 5 anni, per la malattia di Romano, nel 2014 non ci ha piú fatto aspettare. E siamo saliti in vetta. Ricordi di qualche elogio, per la scelta di scendere? Appena giú sono andata da Elizabeth Hawley, la custode degli Ottomila, per la consueta intervista. Come scrivo nel libro ha commentato: «Cosí, sei tornata indietro. Nelle tue condizioni tutti avrebbero detto bye bye, e avrebbero tirato diritto verso la cima, lasciando il compagno ad attendere. Ma sapevi che non avresti potuto piú vivere, se fosse successo qualcosa… Questi sono giorni terribili, per il Nepal, che è un po’ la vostra seconda patria. Siete in contatto con qualcuno? È una quotidiana ricerca di notizie. Una parte di quel Nepal che racconto nel libro non esiste piú, e non solo per la distruzione dei villaggi. Abbiamo parlato con alcune persone che conosciamo, altre notizie le abbiamo avute indirettamente dei villaggi. Degli amici si sono salvati, altri non ce l’hanno fatta. Il Nepal è in una situazione drammatica. In questi giorni ricorre l’anniversario del terremoto del Friuli, ma la situazione è imparagonabile, non solo per l’entità del sisma. Anche se all’epoca non esisteva la Protezione civile, si sapeva che da qualche parte sarebbe arrivato qualcuno a darci una mano. Lí ci sono valli ancora isolate, centri che chissà quando potranno avere un aiuto. La comunità internazionale deve farsene carico? Assolutamente. Ricordiamoci che il Nepal era uno dei paesi piú poveri al mondo anche prima della scossa. Noi alpinisti dobbiamo esserne i portavoce, perché, una volta passata l’onda emotiva e spariti i titoli dai giornali, resti ancora viva l’attenzione per questo popolo cosí gravemente colpito.