Friuli: prati e campi di proprietà collettiva ad uso civico, ecco la nuova politica


di Delio Strazzaboschi

Un’anonima intelligenza collettiva si è messa in moto: generazione accelerata di conoscenza e intensificazione di pensiero, saggezza sociale portatrice di ragioni che già contengono possibili soluzioni agli squilibri, agli arbitrii e alle ingiustizie che sorreggono il palco dei privilegi di ogni grande e piccolo potere. Essa ha chiaro che il culto dell’individualismo, proprio mentre spinge alla soddisfazione dei singoli, compromette alla radice la probabile felicità di tutti, ma anche che la crescita economica da possibile strumento è diventata unico fine a cui dovremmo essere permanentemente incatenati. Crescita, sviluppo, competitività: parole d’ordine logore e insensate che ben rappresentano l’arretratezza culturale della politica, conservatrice perché partecipe del potere ma soprattutto incapace di dare speranza alla mente e al cuore di chi vuol legittimamente migliorare la propria vita  Poiché è vero che la vera malattia della politica sono i partiti: l’indifferente galleggiamento ideologico fra gli interessi costituiti, solo per conservare i propri privilegi di ceto, il trasversale moderatismo (innanzitutto mentale) di politici, dirigenti pubblici e giornalisti, sclerotizzati d’ogni età che mai si faranno da parte. Ma nel sottosuolo del nostro paese si è accumulata un’indignazione che, grazie alla varietà delle storie, delle culture e dei punti di vista, saprà trovare sbocco non occasionale. Infatti, il nuovo è altrove. I recenti referendum su alcuni beni comuni (acqua, salute e ambiente, legalità) hanno dimostrato che la nuova consapevolezza collettiva ha saputo fare proprio dei beni universali l’argine invalicabile, il senso del limite e della responsabilità, che egoismo economico e servilismo politico non possono più oltrepassare. Da qui potrà partire un cambiamento anche epocale. Già entro breve le popolazioni che vivono su migliaia di chilometri delle nostre coste scenderanno in piazza contro la loro privatizzazione e l’inaudita concessione di un diritto di proprietà su un bene comune (quello di superficie, con conseguente cementificazione), per un mare libero, visibile e accessibile a ognuno. Le spiagge sono di tutti e devono essere gestite, direttamente o in affitto temporaneo ai privati, esclusivamente dalle comunità locali. Per uscire dalla crisi è inutile correre ancor più forte lungo la solita strada; non c’è altra via che ridistribuire la ricchezza, renderla sempre più sociale e sconfiggere chi ne ha depredata così tanta opponendosi a ogni equa ripartizione. Perciò non è di ripresa che abbiamo bisogno, e men che mai di demagogia fiscale, ma di cambiamenti di vasta portata e di una nuova creatività della politica. Recuperare ambiti sempre più vasti di economie produttive e di servizio entro la sfera dei beni comuni, riportare la gestione dell’acqua alle comunità, ma anche il patrimonio naturale e quello culturale. Iniziando dai trentamila chilometri quadrati di boschi, prati e campi di proprietà collettiva ad uso civico, si aggiungano i trecento mila milioni di euro dei patrimoni pubblici, di fatto male o per nulla gestiti, che non devono essere privatizzati e svenduti ma tornare all’amministrazione autonoma delle comunità cui appartengono: un’immensa ricchezza collettiva e una formidabile leva per l’economia. Ma a condizione che tutto ciò avvenga contemporaneamente e dappertutto, creando la massa critica di un grande progetto per un nuovo risorgimento economico e sociale, in particolare per la rinascita di montagne, colline e aree interne (che coprono il 64 % del territorio nazionale), proprio grazie all’ampliamento della base materiale dei beni comuni e a loro innovative modalità di destinazione e gestione.