Friuli: quando i film li girano da noi


di PAOLO MEDEOSSI

Due film girati nel giro di un anno nelle nostre zone hanno in comune aspetti importanti. Il primo uscito nel 2008 è Come Dio comanda di Gabriele Salvatores, girato fra Maniago e San Daniele, il secondo è Alza la testa, di Alessandro Angelini, in questi giorni nelle sale, realizzato fra Gorizia, Aidussina, Cave del Predil e Grado . In comune hanno la storia da raccontare (il rapporto ruvido, intenso, diretto fra un padre e un figlio) e la descrizione del paesaggio. Non si tratta di cartoline con scorci turistici e consolatori. Sono immagini anche da pugno nello stomaco, cieli grigi, plumbei, pioggia, ma nelle quali possiamo riconoscerci. Non sono scenari inventati e calati nella nostra realtà. Alza la testa è un film inserito in questa nostra modernità così complessa e rapida, che si inoltra – dopo una parte ambientata a Roma e dintorni – nelle situazioni del confine goriziano cogliendo aspetti che chi vive qui conosce bene e che può condividere. È tratteggiato, con significative inquadrature, anche il rapporto, spesso di incomunicabilità, tra quanti risiedono in territori tribolati dove la storia ha calcato la mano. Il regista è romano, ma dimostra intuito nell’addentrarsi in una realtà che richiede attenzione, passione e umiltà per essere capita. Per esempio, c’è un episodio che avviene in una piscina. È quella di Aidussina, in territorio sloveno, e dall’interno della struttura, dove si muovono i protagonisti, attraverso la parete vetrata si vede lì vicino il grigio di una fabbrica sotto un cielo gonfio di pioggia, come a significare che quel paesaggio non ci abbandona mai, che sta in noi, dentro i sentimenti e le situazioni.<br />
Su questo film tanto è stato già scritto e anche il Messaggero Veneto ne ha riferito ampiamente visto che giorni fa se ne è parlato a Gorizia, Udine e Pordenone, alla presenza del regista e dell’attrice Anita Kravos, goriziana diplomatasi all’Accademia d’arte drammatica di Mosca, che in Alza la testa ha un ruolo da brivido, capace di riassumere, nel volto, nella voce roca, nel bilinguismo di frontiera, il senso ultimo di un mondo.
Forse mai come stavolta a colpire è il divario di opinioni fra le varie critiche apparse su giornali e internet, che hanno sbandato dall’esaltazione alla demolizione. Per esempio, è capitato di leggere una frase come questa: «… Da quando il figlio muore in un incidente con il motorino sembra che il film non sappia più cosa fare del personaggio del padre: i suoi eccessi e le sue disavventure sono inutili, sconclusionati». Quindi il giudizio estetico, che comunque deve sempre esserci, prevale su tutto, anche sulla stessa vicenda che si narra, come se nella realtà un padre, dopo aver perso tragicamente l’unico figlio, sia in grado di conservare atteggiamenti e raziocinio da persona non sconclusionata. E poi: «Gira che rigira siamo sempre lì. Il soggetto intorno a cui ruota gran parte del nostro cinema più ambizioso è l’incontro con l’Altro, quasi sempre uno straniero e un immigrato: l’emblema del diverso più problematico». Anche in questo caso il critico si meraviglia per qualcosa che capita invece quotidianamente nella vita di tutte le persone normali. Al bancone del bar, nell’autoporto di Gorizia, gli occhi disperati del padre (un romano sbarcato alla frontiera con l’Est fra gente che parla una lingua incomprensibile dopo aver attraversato l’Italia e paesi pieni di neve) fissano il trans, lo straniero in tutti i sensi che porta in petto il cuore espiantato al figlio, e la sua espressione è vera e assoluta fino nel profondo, come l’ambiente che gli sta attorno, scolpito in una durezza che forse nel resto d’Italia è difficilmente comprensibile.
C’è poi chi si stupisce per certe scene sull’emigrazione clandestina (che la gente dell’Isontino può confermare ricordando cosa accadeva fino a pochi anni fa) e per quel piccolo miracolo che accade quando il padre soccorre una ragazza clandestina, trovata in un furgone, portandola all’ospedale dove partorisce. Appoggiando il corpicino sul suo ventre, l’uomo fa scoccare in lei la scintilla che la sveglia dal coma. Ed è un barlume vitale in un uomo devastato per sempre dal dolore. Tutta finzione a uso cinematografico? Anche in questo caso la realtà dà un appiglio. Cronaca dell’altro giorno. Una ragazzina rom di 15 anni è stata colta dalle doglie mentre in pullman cercava di raggiungere dalla Spagna la Romania, dove il padre è in fin di vita. Soccorsa nell’area di servizio di Duino, è stata portata all’ospedale monfalconese dove ha dato alla luce una bambina. La mamma sta bene, la neonata dovrebbe farcela ed è ricoverata al Burlo Garofolo.

Una risposta a “Friuli: quando i film li girano da noi”

  1. Mio nonno nacque nel 1912 nel paese delle Alpi Giulie HEIDENSCHAFT, che a quell’epoca apparteneva all’Impero d’Austria. Mia madre nacque in quello stesso paese nel 1941, quando era Italiano con il nome di AIDUSSINA. Dal 1947 quel paese divenne Iugoslavo e dal 1991 è in Slovenia con il nome di AJDOVŠČINA. Orrori, crimini, lutti ed un mucchio di mutazioni di confine attraversarono quel paese nel Ventesimo secolo, ma dal 2007 si può andare in quel paese sia dall’Austria che dall’Italia senza ostacoli doganali, perché la Slovenia è entrata nell’Unione Europea e nello “Spazio Schengen”.
    Sarebbe bello se un giorno tutte le storie delle frontiere potessero finire come questa.
    Ciao dalla Provincia di Mantova.

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