Friuli: Renzo Tondo, i giovani e gli stili di vita consapevoli e corretti

Un messaggio rivolto ai giovani ad assumere stili di vita consapevoli e corretti e ad avere fiducia nel futuro, è stato rivolto agli studenti dell’ISIS Malignani di Udine dal presidente della Regione, Renzo Tondo, intervenuto al ‘talk show’ “Par un vivi franc / For a fair living” (Per un vivere leale), organizzato dall’Associazione Euretica e condotto da Daniele Damele. L’evento, nell’aula magna dell’istituto, si è articolato in una serie d’interventi di autorità, come il presidente della Provincia di Udine, Pietro Fontantini, personaggi del mondo sportivo, tra i quali il preparatore dell’Udinese Calcio, Claudio Bordon, e il calciatore Gianpiero Pinzi, e il vicepresidente regionale del CONI, Giuliano Gemo, del mondo della cultura, lo scrittore Pino Roveredo, e della sanità, rappresentato dal direttore Dipartimento di Oncologia medica del CRO di Aviano, Umberto Tirelli.
Personaggi, ogni giorno a contatto con gli effetti delle dipendenze, che hanno trasmesso ai giovani le esperienze personali e non solo professionali, e indicato il percorso che essi dovranno seguire per un corretto stile di vita.
Si è trattato di un ‘talk show’, al quale è intervenuto anche il presidente del comitato ‘Fair Play’ e di Euretica, Alessandro Grassi, introdotto dalla preside dell’Istituto Malignani, Ester Jannis, e concluso dall’arcivescovo di Udine, Andrea Bruno Mazzoccato.
Il presidente Tondo, rivolgendosi ai numerosi ragazzi presenti, ha voluto riportare l’esempio di due situazioni diametralmente opposte, delle quali è stato testimone e protagonista nella sua vita professionale. Due situazioni che sono esemplificative di comportamenti corretti, e da prevenire, dei giovani d’oggi.
Tondo ha ricordato che la notte di Natale, un gruppo di ragazzi di Verzegnis, in Carnia, dopo avere preso parte alla Santa Messa della mezzanotte, ha trascorso diverse ore nel suo ristorante, per festeggiare degustando in modo consapevole i vini del vigneto regionale, accompagnandoli con le pietanze della tradizione. E rincasando poi, perfettamente sobri, ancorché nel cuore della notte di Natale.
In un’altra occasione invece, gli è capitato di rientrare nel suo locale, e di trovare un gruppo di ragazzi che aveva esagerato con le bevande alcoliche. E di essere stato costretto a trattenere le chiavi dell’auto di uno dei giovani, chiamando i genitori dei ragazzi affinché li riportassero a casa sani e salvi.
Due esempi di stili di vita, uno corretto, l’altro sbagliato, che caratterizzano non solo la componente giovane della nostra società. Infatti, come ha poi affermato Pino Roveredo, ‘talk show’ come quello odierno dovrebbero essere rivolti anche agli adulti.
Secondo Tondo, infatti, nella vita quotidiana “può anche succedere di bere un bicchiere di più: ma tale comportamento deve rappresentare un fatto episodico, un’eccezione, non un’abitudine, che rischia invece di trasformarsi in dipendenza”.
E ha annunciato che entro l’anno la Regione organizzerà un convegno sulla lotta alle dipendenze, per affermare che il Friuli Venezia Giulia è capofila, e l’evento di oggi ne è un esempio, tra le realtà che propugnano l’educazione al bere consapevole, a una giusta alimentazione e a corretti stili di vita.
Il presidente ha compreso in tale riflessione la lotta all’uso di sostanze stupefacenti. Che, come ha ricordato rispondendo a una domanda del moderatore, accanto all’obiettivo prioritario di togliere numerosi giovani, e purtroppo a volte non solo giovani, dalla spirale perversa della droga, ottiene anche l’effetto di ridurre i costi della sanità.
Infine, il capo del governo regionale ha ricordato di essere rimasto molto colpito, in termini negativi, in occasione di una visita compiuta di recente alla città di Dublino, dove ha visto con i propri occhi giovani completamente ubriachi, e forse non solo, distesi lungo le strade all’addiaccio, in pieno inverno, in preda ai fumi dell’alcol e forse delle droghe.
L’impegno suo personale, della Regione, propugnato anche dagli ideatori della manifestazione odierna, è volto a fare in modo che ciò, nel Friuli Venezia Giulia, non possa mai accadere. Nemmeno in un futuro lontano.
Tondo si è infine soffermato, cogliendo lo spunto dalla prevenzione per la salute, sulla funzione essenziale svolta dalle associazioni di volontariato che sono motivate dal valore del dono.
Tra l’altro, come ha rilevato il presidente nel concludere, i donatori vengono sottoposti periodicamente a esami sul loro stato di salute. Ed è questa, come ha detto riferendosi alle donazioni di sangue e di midollo, un’occasione utile per fare prevenzione per una qualità della vita migliore.
In chiusura del ‘talk show’, l’arcivescovo Mazzoccato ha affermato che ogni giorno, al risveglio mattutino, pensa a che cosa può fare di buono per gli altri, ed è questo lo stile di vita che ha proposto oggi ai giovani, a conclusione di una mattinata di concreto approfondimento su tematiche scottanti della nostra società, assieme ai ragazzi, i cittadini del domani.

Una risposta a “Friuli: Renzo Tondo, i giovani e gli stili di vita consapevoli e corretti”

  1. Ermes Dorigo

    SUGLI SGUARDI DEL DISAGIO GIOVANILE E SUL SUICIDIO
    Guardiamoli con occhi più attenti

    “Cerco un centro di gravità permanente…”: mi risuonano nella mente le parole della fortunata canzone di Franco Battiato, quando incrocio nuovamente gli sguardi delle mie studentesse e dei loro compagni tra i banchi di scuola. Non vedo se sono abbronzati o stanchi, perché hanno lavorato durante le vacanze scolastiche; no, cerco di leggere nei volti la scrittura degli occhi e delle labbra che, anche se chiuse, parlano e dicono dell’ interiorità ; entrambi “specchi dell’anima”, parola, quest’ultima, ormai desueta, anche nel significato di individualità, dato che si vorrebbe che quasi tutti i giovani ne fossero privi, omologati in toto verso l’esteriorità e la materialità dei consumi (percing, orecchini, pettinature scalate, schiuma, gel, capigliature colorate: cazzate! Nel senso che non sono certo questi gli elementi, su cui fondare una valutazione ed un giudizio, anche se il conformista comun sentire lo fa: del resto quando alcune donne, in altri tempi, hanno iniziato ad usare il rossetto o a indossare le minigonne il buon senso comune non le giudicava forse delle bagasce?); in realtà, fluttuanti, plurali, metamorfici, privi appunto – per lo più, non generalizziamo: ci sono anche giovani che rivelano un saldo background affettivo in senso lato e, quindi, una identità strutturata, marcata e ben definita – di un “centro di gravità”, di pesantezza , intesa come comprensione e accettazione di sé, della complessità della vita e della storia e del sapore dulcamaro delle stesse; padroni e responsabili della direzione da dare alla loro vita in relazione ad un sistema di valori ben definito; bisognosi di un baricentro per controllare e ordinare la loro contraddittorietà interiore, squassata tra razionale e immaginario, intuitivo e riflessivo, globale e analitico, verbale e visuale, reale e virtuale.
    Questi giovani sono leggeri, evanescenti, nel senso che dentro non hanno spesso sedimentato esperienze reali, ma virtuali, né memoria, riflessione, autonomia di giudizio, la realtà della morte come specchio della vita; sono in balìa delle contingenze e volitano onnidirezionali con disagio dall’una all’altra senza che qualcosa acquisti significatività ed importanza reale; sospesi sopra le cose e al di qua della storia, cui tanti vorrebbero appartenere ma dalla quale vengono respinti dalla stupidità di adulti superficiali (nel senso letterale, che si fermano alla superficie) o prepotenti, arroganti ladri di giovinezze, e ricacciati dentro se stessi e rinchiusi come in un ghetto: tante solitudini individuali unificate dal pregiudizio sociale, esistenti solo in quanto funtivi del consumismo. Costretti a sopravvivere come fantasmi introversi e silenziosi nella disconferma socio-affettiva e sociale nel pieno del loro vigore fisico e immaginativo, tra inedia inazione noia insensatezza del vivere (ove s’insediano sogni trasgressivi anche autodistruttivi) i loro occhi esprimono malessere, depressione, angoscia, insicurezza e, mentre parli loro dei grandi avvenimenti storici e li coinvolgi sui temi e i ritmi dei grandi poeti e scrittori, il loro sguardo quasi si sdoppia: uno di stima e apprezzamento per la tua passione educativa e culturale, l’altro come di rimprovero per certa tua disattenzione al loro vissuto, alle loro problematiche, al loro disagio, alle loro paure, per affrontare, se non per risolvere i quali richiedono fondamenti (pur se discutibili e relativi) e punti di riferimento, che vengono anche dai libri, ma soprattutto dagli adulti in carne ed ossa, che hanno di fronte nelle varie situazioni della loro vita quotidiana e che dovrebbero aiutarli ad ‘liberare’ la loro interiorità, considerandola importante, un valore.
    Se osservi con attenzione, vedi allora tanti sguardi – non parlo degli occhi sereni, luminosi, consapevoli, sicuri e di labbra appagate -: incerti, assenti, mascherati, malinconici, freddi, tremolanti, disillusi, aggressivi, foschi, reticenti, inquieti, disamorati, imploranti, velati, vuoti, ansiosi, maliziosi: epifanie di situazioni difficili e a rischio, che nel mondo giovanile sono in crescita esponenziale (non solo tra giovani ‘studenti’): aumento della sfiducia in se stessi, calo dell’amor proprio, carente proiezione nel mondo e nel futuro, sgretolamento progressivo della motivazione all’agire e della voglia di vivere, dissoluzione del diaframma tra vita e morte, che vengono eguagliate, e che spinge i più fragili e sensibili a scegliere la morte come vita: il suicidio non è spesso una scelta di morte, ma di una vita ‘altra’: “Diventerò una stella del cielo e da lassù continuerò a guardare il tuo volto e ad amarti”, ho letto in una lettera di un giovane suicida. “Da lassù”, perché ‘quaggiù’ i sogni s’intersecano col dolore e con le disillusioni e spesso manca a molti giovani – non per carenza ontologica, ma educativa e formativa – la forza interiore per resistere e districarsi nel labirinto dell’esistenza e per rifiutare e opporsi al neodarwinismo sociale della legge della giungla, della quale sono le prime vittime.
    Scopriamo, con meraviglia o ipocrisia, che i giovani hanno degli ‘occhi che parlano’, solamente quando vediamo sgorgare da essi lacrime desolate e disperate per la morte di un amico, schiantatosi con l’automobile o scoppiato per droga, magari ascoltando Il cantico dei drogati di Fabrizio de Andrè (“… quando scadrà l’affitto / di questo corpo idiota / allora avrò il mio premio/ come una buona nota./ Mi citeran di monito / a chi crede sia bello / giocherellare a palla / con il proprio cervello, / cercando di lanciarlo / oltre il confine stabilito, / che qualcun ha tracciato / ai bordi dell’infinito.”); o suicida.
    Ma presto si stende la coltre della rimozione: molti adulti, virtuali o cinici – tanto ai loro figli non accadrà -, continueranno ad evitare quegli sguardi; guarderanno altrove sopra intorno in basso oltre a lato, non negli occhi, o chiuderanno del tutto i propri, per non subire turbamenti o sensi di colpa; ma restano quegli occhi di rimprovero proiettati nel vuoto, perché non incontrano altri occhi con cui comunicare. Invece da quel dolore vero, profonda ferita ed esperienza reale, si dovrebbe partire, per agganciarli alla storia, per farli riflettere sul senso e l’importanza della vita, sulla morte e sulla nostra precarietà e fragilità naturale: non facendo questo, gli si insegna a glissare sui problemi, a schivarli, a trasformare il reale in virtuale, ad autodistruggersi.
    Un detto popolare dice: “Ogni vita ha la sua scusa” (quindi, anche ogni morte?). “Scusa”: Giustificazione? Destino? cinicamente: ”Chi è causa del suo mal pianga se stesso”? Determinismo biologico? Cazzi suoi? Mi viene il dubbio che proprio nella vecchia società contadina, tanto oleograficamente rimpianta, si possa ritrovare l’incubazione degli spermatozoi del cinismo individualistico e della abdicazione alle responsabilità verso gli altri dell’attuale società.
    Anch’io mi porto dentro la ferita d’uno sguardo incompreso, di aver trascurato un giovane sguardo che pareva di sfida e disprezzo ed era invece una richiesta di aiuto; il rimprovero per aver interrotto, non per volontà ma per contingenze storiche, un dialogo, anche se discontinuo, fecondo, che a quel giovane dava in parte, pur nella lontananza, quel famoso “centro di gravità”.
    L’ho rivisto, invece, poco tempo dopo, disteso sul tavolo dell’obitorio del cimitero di Udine e, se ne accenno ora, non è per senso di colpa, anche se mi rode non aver capito, ma per mettere in guardia gli adulti contro le disattenzioni agli sguardi dei giovani che chiedono aiuto; quando quegli occhi sono spenti dal sigillo della morte, siamo tutti dei perdenti e tutti ci portiamo un vuoto dentro, anche se la fantasmagorica società delle immagini e della corsa al successo e al danaro reclude presto le proprie responsabilità dentro la cinta murata cimiteriale.
    Pensavo a mille cose, quasi come autodifesa dal dolore od esorcismo e fuga dalla stesso, mentre contemplavo atono l’esanime corpo nudo coperto solo dai boxer colorati di colui che, ormai solo cadavere salma spoglia, era stato un giovane molto alto snello muscoloso, bello, disteso sul marmo del tavolo dell’obitorio, gli occhi chiusi come in un sonno, le palpebre non parevano ancora sigillate dalla nera ceralacca della morte, e le carni chiare, sulle quali si diffondeva inesorabile e incurante il giallo cinereo prima della cianosi, che a macchie rivelava in superficie il sudario della omicida decomposizione interna. Riflettevo sui nomi, che si danno al morto: cadavere come caduta; salma, di derivazione greca, soma, peso, quindi l’anima che si libera dell’armatura pesante del corpo; spoglia, cristianamente rimane solo la veste mortale che ricopre l’anima immortale, per questo, nella cultura cattolica, lo si definisce ‘corpo esanime’, ex anima, privato dell’essenza vitale; ‘defunto’, de-fungi, abbandonare la propria funzione; defunctus vit, significava che aveva esaurito, compiuto il tempo della vita. Arzigogolìo etimologico come diversivo e fuga dalla crudezza del vero. Non riuscivo assolutamente ad accettare quella definitiva ineludibile realtà; ma la verità non occorre andarla a cercare, perché ti viene incontro con la violenza d’un cazzotto. Il giovane custode, più o meno della stessa età del suicida, piangeva e si disperava di una tale morte; io, come se avessi guardato in volto Medusa, ero pietrificato…
    “Mira ed è mirata”; guarda ed è guardata, scriveva Leopardi della gioventù recanatese la sera del dì di festa; nella reciprocità degli sguardi, della comunicazione sta anche la felicità, ma soprattutto quella rete solidale di amicizia e amore, che dà un significato forte all’esistenza individuale; per chi, invece, come Giacomo, si trova ad essere solo un lanciatore di sguardi nel vuoto, senza incontro e ritorno, la morte diventa mitico sogno della fine di ogni sofferenza o di ricerca di una vita diversa, “ da lassù”. Com’era accaduto a lui, il cui sguardo non avevo capito. Però, da allora, mi si è insediato dentro il dubbio se questa storia si meriti una vita.

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