Mario Rigoni Stern: un uomo buono, a otto anni dalla sua scomparsa, di Ermes Dorigo

rigoni-stern (1)

 «Il bosco, cattedrale del Creato: le luci che filtrano dall’alto, i fruscii, i suoni, gli odori, i colori sono mezzi per far diventare preghiera le tue sensazioni da offrire senza parole a un dio che non si sa. Forse da qui sono nati per la prima volta nell’uomo l’idea, il pensiero, la riflessione»

di Ermes Dorigo.

Ogni lettera di questa scrittura è come una lacrima essiccata, perché, come vorrebbe Mario, il dolore deve essere vissuto nelle pieghe del cuore, con la forza e la fermezza della consapevolezza che il mondo è fatto da persone che vengono, persone che restano, persone che vanno: «Mi viene anche la tentazione di chiudere con la scrittura e dedicarmi solo alla lettura e all’orto; vedo anche, purtroppo, che ad applicarmi nello studio gli occhi mi si stancano. Ormai, voglia o no, il tramonto si avvicina». Lui, per me, se n’è andato sull’altro lato della strada; lo vedo che mi precede col volto radioso di primavera e so che rimarrà sempre dentro di me come sapiente guida,  per quanto ancora mi sarà concesso d’essere in questo mondo, con i suoi valori: la vita come fatica e conquista quotidiana, spesso sofferta; la leopardiana allegoria della giovinezza; l’identità storico-culturale della comunità; il rispetto della dignità umana, fortificata da valori come il sentimento della umana solidarietà; l’accettazione serena del limite umano; la bellezza della natura…

Rimarrà sempre dentro di me.

Il suo calore umano e la sua sensibile dolcezza, che conservo nelle parole che mi scrisse dopo una mia lunga degenza ospedaliera: «Caro Ermes, la tua voce al telefono, ieri sera, mi ha persino commosso: era la voce di chi è uscito dalla “sacca” (come ai pochi del gennaio 1943). Ora anche tu sei ‘ritornato a baita’ e, piano piano, con l’aria di casa e la primavera che verrà sarà come rinascere. Vedrai come sarà bella la primavera! Una scoperta, come imparare a ricamminare. Vai, vai con il mio augurio che ti accompagna». Ed io vado dietro di lui che, col suo passo cadenzato e giudizioso, m’insegna ancora come si scala la montagna della vita, senza rassegnazione ma con la coscienza della nostra precarietà e limitatezza creaturale nell’universale eterno naturale: umiltà nei confronti della vita, resistenza nella storia: «E poi mi mortifica quest’Italia berlusconiana con troppi sottoposti al padrone. Sarà difficile liberarci. Comunque resistenza. Sempre. Abbi un po’ di compassione di questo vecchio ostinato che crede ancora in qualcosa».

La sua ingenuità, la capacità di meravigliarsi, come quando avvertì una ‘strana’ consonanza tra noi: «Rileggendo ora il poemetto Di quel mondo, che con tanta bontà hai voluto dedicarmi, ho trovato le radici delle Stagioni di Giacomo ed è sconcertante – almeno per me – la concomitante data di stesura: 28.3. 95 (!)». Di questa  profonda affine sensibilità montanara ho avuto conferma, quando mi ha accolto nella sua casa ‘di legno’ in Valgiardini, con semplicità, spontaneità, premurosa e calda ospitalità: mi era ‘debitore’ di una polenta ed Anna, moglie veramente tale, donna apprensiva e premurosa ed anche madre sua, protettrice dai petulanti e dagli intrusi,  aveva preparato tutto in sala da pranzo: noi abbiamo sbaraccato tutto e pranzato in cucina al calore del focolare, come si conveniva, appunto, ad una colta e calda amicizia montanara. Austero e ordinato il suo studio in mansarda. Serio, autorevole e solenne nel portamento composto e raccolto, era dotato anche di sottile ironia, sia nei rapporti quotidiani sia nella scrittura: i suoi, ora tristi,  lettori ricordano certamente ne Le stagioni di Giacomo quella scena carnevalesco-bachtiniana della manifestazione di protesta dei contadini contro l’introduzione dei tori svitt al posto di quelli locali di razza burlina al grido di «Viva Mussolini e i tori burlini!»

La sua modestia ed umiltà, come si evince da quanto scrive ‘al lettore’ nel Meridiano, che raccoglie tutta la sua opera: «Un giorno, passeggiando per il bosco con un amico, mi venne da dire: «Vede, la letteratura è come una foresta, ci sono alberi grandi e bellissimi che sovrastano gli altri: si chiamano Omero, Tucidide, Virgilio, Dante, Boccaccio, Cervantes, Shakespeare, Leopardi…, poi alberi di ogni misura e aspetto. Ma la foresta è bella perché ci sono anche arbusti e cespugli. È tutto l’insieme che è bello». Dove la foresta alpina si dirada e la montagna, in alto, diventa nuda, lassù cresce l’albero più piccolo della terra: il salice nano che si difende dal vento aggrappandosi al suolo e ruba il calore alla roccia che il sole illumina. La neve lo copre per sette mesi all’anno. È stata lunga la mia stagione sotto la neve; ecco, nella foresta della letteratura sono un salice nano». In realtà era uno scrittore vero – per niente istintivo e illetterato – e mi ha ringraziato di cuore, per quanto io ho scritto, a proposito de L’ultima partita a carte – «quello che ‘gli altri’ non avevano capito o non volevano capire» – («questo libro mi ha portato anche dispetto e dolore. E qualcosa di più, nel vedere come oggi vanno le cose sulla terra e come a troppi è diventato facile dimenticare il nostro non lontano passato. Anche tristezza ho provato, e la tristezza in vecchiaia non è cosa buona. Ma il cuore del mio pensiero, tutt’altro che triste, va ai ragazzi di oggi»): era, in verità, uno scrittore colto e raffinato, non un semplice “narratore di storie” come lui si definiva; autoetichetta, questa, della quale hanno profittato molti critici, per limitarne, marginalizzandolo quasi, l’importanza nella letteratura italiana del secondo Novecento, dove viene per lo più ricordato di sfuggita nei sottogeneri: memorialistica, ricordi di guerra, realismo nostalgico. Scrittore vero, il quale oltre che dei classici, di Dante, dei poeti Trecenteschi, di Leopardi ha nutrito la mente  e il cuore anche di poeti contemporanei, come Montale e Ungaretti:«Mi ero incontrato con lui tre o quattro volte e sempre, nei miei confronti, era amichevole e benevolo. Una volta fu lui, a un convegno, a volermi accanto. Ne ho un buon ricordo e, naturalmente, amo la sua poesia».

marcesina-albergo-Copy

Il  rapsodo della civiltà alpina, suo rifugio, l’antidoto vitale all’orrore che aveva attraversato: un luogo serenante dell’anima che, a differenza di Primo Levi che non l’aveva più ritrovato, lo aveva salvato. Non un presepe, ma una grande allegoria, sostenuta da una felicità di nominazione delle persone e delle cose quasi adamitica, per cui esse sono sottratte di fatto, pur mantenendo la loro concretezza realistica, ad ogni determinazione spazio-temporale (proprio come gli idilli leopardiani, di concreta e cosmica verità), e trasformate in sentimenti, pensieri, comportamenti e valori universali: la sua civiltà alpina non è, dunque, un monumento nostalgico a qualcosa che si sta definitivamente perdendo, ma presenza viva proiettata con forza dentro il nostro e presente mondo di disvalori, come critica forte e alta di questa inciviltà senza direzione, senza rapporto più con i problemi ultimi dell’esistenza individuale e collettiva; i valori di questa cultura, ci ha insegnato Mario, possono (devono) essere ancora oggi paradigmatici, se non si vuole andare verso un nuovo autoritarismo politico-istituzionale, la perdita definitiva del rapporto dell’uomo con la natura e la disumanizzazione.

La sua intatta e sbalorditiva freschezza d’animo, dalla quale zampillavano sorgivi incanti poetici: in mezzo alla natura l’anima era rimasta quella di un bambino, e ben gli si addice quanto scriveva il suo amato Leopardi:«Quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura dei nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna».

La sua riservatezza: Mario ha scritto tanto delle sue esperienze, che ha trasfuso in personaggi dei suoi libri, ma in realtà ‘nulla’ di sé; il suo vero discreto autoritratto interiore, la fonte d’ispirazione, per raccontare il suo mondo, realisticamente lirico e  incantato, li troviamo nello specchio di Lettera a Jacopo (da Bassano) nel libro Aspettando l’alba: «Caro Jacopo, ancora una volta sono sceso dalla montagna per rivedere i tuoi capolavori. Sono ritornato a guardarli con attenzione e la scorsa notte non ho dormito perché dentro avevo quelle tue pitture che mi davano da pensare. Cercavo a occhi chiusi di selezionare le immagini, che non erano di personaggi ma di uomini, donne, ragazzi, bambini, animali, alberi, casupole, montagne, cieli della nostra terra. Mi pareva, in quei pastori, contadini, artigiani, osti, di riconoscere volti ai quali poter dare un nome di stirpe famigliare. Nei tuoi paesaggi ritrovavo il profilo di quella montagna, l’ombra di quel bosco, la luce di quella radura, le mele di quell’ albero. Persino le pecore erano le nostre, di razza «foza», e le vacche le «burline». Così cani, i gatti, le stoviglie, i mobili. Da tanto tempo, Jacopo, ti conosco, un tempo che non si può misurare, e ti sento fratello maggiore e grande, il più bravo e il più grande dei compaesani; nelle tue pitture ritrovavo quello che la nostra patria e la nostra gente avevano espresso di meglio.[…] osservavi i pesci nei canestri dei pescatori, le anatre sull’acqua, le transumanze dei nostri pastori che ogni primavera risalivano verso i pascoli alti e ogni autunno scendevano verso i pascoli invernali, sempre seguiti lungo la «strada della lana» dalle loro donne e dai bambini, con migliaia di pecore e agnelle, e i montoni robusti, e le capre per il latte, e i cani per la custodia, e gli asini per il trasporto a soma delle pentole di rame, delle mastelle, degli agnelli appena nati dentro le borse. Dopo, a casa, ripensavi alle storie che tuo nonno ti raccontava e aveva portato con sé quando scese dalle montagne: ti diceva di gente venuta da tanto lontano per vivere in pace; agli uomini, alle donne, ai ragazzi davi i nomi delle storie della Bibbia e del Vangelo; solamente nei paesaggi montani dietro le figure principali e nelle piccole figure lontane trovavi qualcosa di vivo; guardavi oltre le finestre dove sotto scorreva il fiume: vedevi l’acqua e gli uccelli sulla corrente, gli alberi con i frutti e gli uccelli, i colli con le vigne, il castello degli Ezzelini, il Grappa, le pendici dell’Altipiano nostro. E dentro le tue pitture mettevi anche il gatto di casa, il cane pezzato bianco e castano, le pentole di rame, il tappeto turco, i fiori dei prati intorno. Ti era sufficiente il mondo che vedevi attorno, questa vita, questi uomini e questi paesaggi per raccontare la nascita, il lavoro, la morte. La Bibbia e il Vangelo diventavano la vita di tutti i giorni; la mitologia i racconti di tuo nonno attorno al fuoco nell’inverno, le stagioni e il trascorrere dei giorni, la vita della natura. In tutti o quasi tutti i tuoi dipinti c’è la luce della creazione, dell’alba sopra le montagne. Non c’è il sole radioso, ma quella luce che fa fremere il creato e lo fa nascere dal buio. Il paesaggio che si apriva intorno — con le grandi montagne di rocce e di neve contro il cielo, le valli profonde, i boschi odorosi per il disgelo della terra, i lavori della gente sui prati e negli orti appena liberati dall’inverno, gli agnelli e i capretti che saltavano tra l’erba novella, le donne intente a filare il lino e la lana davanti agli usci — erano per te sempre cose nuove. Nell’aria c’era intenso l’odore del fieno che essiccava su prati appena sfalciati, e nel cielo il canto delle allodole. Alla fine dei tuoi giorni era il crepuscolo che ora volevi dipingere, la tua prenotte. Forse il prenatale che viene dopo un tramonto. Lumeggiature nella notte buia, come uno splendore sovrumano che inizia al mistero arcano, una luce che può venire solo da dentro. Da parte mia, Jacopo, fratello grandissimo e caro, vorrei solo che i miei racconti dessero al lettore una piccola parte di quanto tu hai saputo darci».