Portis: nella frazione di Venzone minacciata dalla frana i giovani cercano le loro radici

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di Giacomina Pellizzari.
Portis non è morto. L’unico paese distrutto dal terremoto del 1976 e non ricostruito dov’era continua a vivere nella memoria collettiva. L’anima del luogo è rimasta tra le case non demolite e messe a dura prova dal tempo. Lì i residenti di allora, una ventina, continuano a coltivare orti e vigne, lì i giovani vanno a cercare le loro radici. Quest’estate hanno riacceso il fuoco di Sant’Antonio nell’ansa del fiume, una sorta di porto naturale, dove, ai tempi della Repubblica Veneta, venivano scaricate le zattere piene di legname. Tra quei muri lesionati a croce di Sant’Andrea, l’antropologo, Stefano Morandini, contrattista di ricerca all’università di Udine, assieme alla docente Donatella Cozzi, del dipartimento di Lingue, letterature, comunicazione, formazione e società dello stesso ateneo friulano, scrivono la storia di Portis. È una storia che inizia nel Settecento, ad allora risale la prima casa costruita della quale oggi resta solo un cippo. Quella pietra segna il passaggio della strada nel mezzo del paese prima che la statale venisse spostata più in alto, sotto la montagna dalla quale il 15 settembre 1976 si staccò il masso, lasciando in bilico una frana di ben più ampie dimensioni. Il sasso cadde sul cartello “Portis deve rinascere qui” esposto da chi non voleva spostarsi e nascose il qui. Portis è risorto in borgo Gnocs, ma la frana è ancora lì appesa al monte: «Se il picco si stacca – cantavano gli anziani prima del terremoto – Portis sarà sepolto». Quarant’anni fa la gente mentre piangeva i sei morti, due non erano residenti a Portis, comprese il pericolo e la stragrande maggioranza degli abitanti accettò di rifare il paese altrove. Ma con il cuore il luogo di sempre non venne mai abbandonato, tant’è che oggi, se non fosse per il bosco che ha la meglio su tutto, sembrerebbe rinascere. L’anima dei luoghi «Portis non può rinascere perché non è mai morto», spiegano Cozzi e Morandini facendo notare che chi è nato e cresciuto a Portis vecchia ogni giorno torna nella piccola frazione di Venzone. Lo fanno gli amanti della bicicletta che percorrono la ciclabile Alpe Adria, gli anziani e i giovani. «I paesaggi e i modi dell’abitare – aggiunge la docente – sono i paesaggi dell’anima, ci torni. È l’anima dei luoghi e tu gli assomigli». È quella stessa anima che quarant’anni fa i terremotati del Friuli tutelarono pretendendo la ricostruzione dei paesi dov’erano e, quando era possibile, anche com’erano. Oggi l’anima di quel luogo attira l’attenzione dei giovani come Katia che di anni ne ha 27, Umberto, è neppure maggiorenne. «Siamo arrivati alla terza generazione – continua Morandini – pur non avendo vissuto il terremoto, i giovani hanno un rapporto con il paese di allora. Nella chiesetta di San Rocco organizzano concerti e funzioni, in una casa trasformata nella sede della Proloco hanno esposto le immagini di 40 anni fa e raccolto la documentazione per attribuire un proprietario a ogni casa». Basta lasciare spaziare lo sguardo per imbattersi nel cartello con scritto “Cjase Valent Sigars”. Tessera dopo tessera, gli antropologi ascoltano e interpretano i racconti di Maddalena, la nonnina che nonostante sia rimasta sotto le macerie non ricorda nulla del terremoto. Ogni sera recita una preghiera perché quel dramma non si ripeta, pur sapendo che quando la terra deciderà di tremare ancora lo farà. E poi ci sono Giuseppe, Giovanna e Valerio Pituelli, colui che promosse la cooperativa “Nuova Portis”. La ricostruzione La cooperativa “Nuova Portis” è un esempio virtuoso. Seppur non senza difficoltà e qualche diffidenza di troppo, la maggior parte degli abitanti nel paese minacciato dalla frana capì che Portis non poteva rinascere dov’era. La legge consentiva alla gente di riunirsi in cooperativa e un emigrante, proprietario al 90 per cento di un’area, mise a disposizione il terreno in Borgo Gnocs. Qualcuno tentò inutilmente di dissuaderlo arrivando a presentare un ricorso al Tar (Tribunale amministrativo) per chiedere l’annullamento del Piano particolareggiato. Non mancarono i blocchi stradali per respingere le accuse che arrivavano anche dagli agricoltori. Furono proprio i ricorsi a spaventare i dirigenti regionali che temporeggiarono e rinviarono all’infinito la firma degli espropri. «Politicamente con Adriano Biasutti, allora assessore regionale ai Lavori pubblici, – racconta Pituelli – non avevo nulla a che fare. Ma con il presidente della cooperativa e gestore dell’osteria di Portis, Giovanni Battista Jesse, andammo da lui e gli illustrammo il problema. “Lasciatemi le carte” ci disse, una settimana dopo fu proprio lui a firmare gli espropri». Il presidente della cooperativa Jesse, la segretaria Silvana Valent e lo stesso Pituelli si assunsero la responsabilità della gestione dei fondi gratuitamente. «Gli sciacalli con la valigetta e la cravatta c’erano anche allora» sottolinea Pituelli ricordando un fantomatico impresario dal quale prese le distanze quando scoprì che era solo un venditore di fumo. I lavori furono affidati e completati nel 1981 dall’impresa Trevisan Sergio di Fontanafredda (Pordenone). Ma c’è di più perché, fatti tutti i conti, in cassa restarono quasi 5 milioni di vecchie lire che la cooperativa donò al Cro di Aviano. Questo è solo un capitolo della storia di Portis. L’idea di recuperare la memoria è stata proposta da tre soci della cooperativa su progetto di Morandini che l’ateneo friulano sostiene gestendo i finanziamenti messi a disposizione da Legacoop e Assicop ai quali si aggiunge il contributo del Centro audiovisivo per il documentario.