Tarvisio: Nives Meroi e il marito pronti per una spedizione sull’Himalaya; Benet dopo 2 anni di cure ha vinto la malattia

di Giancarlo Martina

Nives Meroi e il marito Romano Benet torneranno nuovamente nell’Olimpo dei Giganti, in Asia, nel circo delle montagne che superano gli ottomila metri di altezza. Vi andranno il 20 ottobre con l’obbiettivo, però, di salire il Mera Peak, una montagna di 6.476 metri per collaudare il ritorno alla normalità di Romano dopo due anni di lotta contro una gravee malattia, l’aplasia midollare severa (un morbo infrequente, quasi sempre privo di causa nota) che s’è presentata a oltre 7.500 metri di quota mentre era impegnato nell’ascesa al Kangchenjunga con i suoi 8.586 metri la terza montagna più elevata della Terra; un monte che per la coppia di alpinisti tarvisiani sarebbe stato il dodicesimo Ottomila della serie delle conquiste da porre nello zaino. Era il maggio 2009. «Eravamo giunti a 7.600 metri di quota e dopo avere bivaccato, l’indomani avremmo dovuto tentare la salita in vetta. Quel giorno, però, mi sentivo più affaticato del solito ben oltre alla normale fatica che comporta l’alta quota – ricorda Romano Benet – e allora ho insistito con Nives per che proseguisse da sola mentre io avrei atteso il suo ritorno al campo più sotto, ma lei non fu di quell’avviso. Mi ha detto che non avrebbe avuto nessun senso salire una cima da sola dopo averne salite 11 assieme e così abbiamo cominciato la discesa, il primo giorno di circa 400 metri di quota. Ma l’indomani, ho avuto subito la sensazione di quanto fosse stata saggia la scelta di Nives. Infatti è stata dura per me arrivare al campo base, le energie venivano sempre meno». E il “calvario” di Romano è continuato nel lungo tragitto verso i mezzi di trasporto. «Uscire dal Kangchenjunga è stato difficile. È stata un vera impresa. Non potevamo chiedere l’intervento dell’elicottero del soccorso – chiarisce Romano Benet – perchè gli elivelivoli erano tutti impegnati nell’assistenza delle spedizioni più ricche e abbiamo dovuto affrontare, nonostante la mia sofferenza, salite e discese con dislivelli di centinaia di metri sui fianchi della montagna per attraversare le valli e raggiungere dopo tre giorni di cammino la località dove arrivavano i mezzi di trasporto rudimentali». Con l’aiuto prezioso di Nives, dunque, il ritorno a casa è stata una vittoria. Ma una volta in Friuli l’alpinista ha dovuto subito fare i conti con la realtà di una pesante malattia. Già alle prime analisi al day ospital di Udine è seguito un ricovero di 40 giorni. «All’inizio sembrava una cosa grave ma rimediabile – spiega Romano -, ma i vari protocolli seguiti non hanno sortito l’effetto sperato e allora si è reso necessario il trapianto del midollo e un primo tentativo sebbene tecnicamente riuscito, non ha dato i risultati sperati. Quindi, grazie all’insistenza e professionalità dei medici e sopratutto del donatore, il giovane, che ringrazierò tutta la vita come anche i donatori di sangue che mi hanno permesso di sottopormi a centinaia di trasfusioni, si è proceduto, lo scorso dicembre, con il secondo trapianto che ha dato le risposte attese. È andata meglio di quanto si sperava. Ed è stata la felicità di tutti, anche dell’equipe del professor Fanin del reparto di Ematologia della clinica universitaria di Udine». «Così da gennaio – chiude Romano – ho cominciato la riabilitazione ed ora sono abile per ritornare in montagna». Nel corso dei due anni trascorsi, intanto, altre donne hanno salito tutti i 14 Ottomila cui ambiva anche Nives Meroi che con Romano, comunque, ha il record d’essere l’unica coppia al mondo ad avere salito 11 colossi della terra. Cosa provò Nives il giorno della rinuncia? «La montagna ci insegna ad essere essenziali nei movimenti e nei pensieri – risponde Nives Meroi – e quindi devi essere pronta a decidere velocemente in certe situazioni. Io scartai subito l’ipotesi di andare da sola in vetta. Non avrebbe avuto senso fare il 12° Ottomila da sola, anche se ciò significava per me uscire dai giochi della corsa a completare la collezione, per cui decisi di scendere». «In montagna è importante – aggiunge Nives – avere chiaro l’obiettivo: la cima è importante, ma prima ancora viene la vita. E poi la montagna ti insegna a essere liberi e noi abbiamo scelto di non rimanere lassù a fare parte del paesaggio». Dopo quell’esperienza ai limiti delle possibilità umane la necessità di dovere affrontare la scalata più dura, la malattia di Romano. «Indubbiamente – afferma Nives Meroi – quello che ritengo al nostro 15° Ottomila conquistato, è stato il più importante. L’abbiamo fatto assieme e come sempre in cordata. Ma questa volta abbiamo avuto anche partners eccezionali: l’equipe medica della clinica universitaria di Udine, i donatori di sangue e quel giovane sconosciuto che ci ha regalato una possibilità di vita con un gesto di massima alleanza umana».