Tolmezzo: un monaco ospite a scuola, e il Tibet accende il cuore dei giovani

di Ester Silverio.

Martedì 15 ottobre, ore 11, al suono della campanella gli studenti si riversano in Aula Magna, dove Palden Gyatso siede silenzioso in attesa di condividere con noi la sua tragica esperienza. Inizia così per gli studenti dell’ ISIS Paschini di Tolmezzo l’incontro con il monaco tibetano detenuto in un carcere cinese di Lahsa per 33 anni, testimone di una realtà agghiacciante, di un genocidio in atto da più di mezzo secolo. A partire dal 1959 la Cina inizia l’invasione del vasto territorio tibetano, ricco di minerali, scarsamente popolato, facile da sottomettere: la lunga scia di persecuzioni violente, distruzioni di monasteri e palazzi spinge la popolazione locale a manifestare pacificamente, reclamando l’autonomia del Tibet e la liberazione dal dominio cinese. Palden ha 28 anni quando viene arrestato nel corso di una protesta: ha inizio così l’inferno della prigionia, 33 anni di torture, fame, isolamento, umiliazione. “Lavoravamo 9 ore al giorno di fila, sopravvivendo con una scodella di zuppa fatta con acqua e un po’ di orzo; poi, se alla fine della giornata non avevamo creato problemi, ne ricevevamo un’altra. In Occidente, ho visto animali nei campi, ma là non c’erano bestie, perché lo eravamo noi. Questa è la differenza tra un Paese libero e uno che non lo è.” “So che ancora oggi accadono queste cose: un fotografo canadese ha realizzato degli scatti che mostrano in quali situazioni versino i prigionieri nei campi. Non è cambiato nulla. La Cina dice di aver portato felicità e progresso in Tibet: sono bugie.” Il 25 agosto del 1992 Palden viene rilasciato grazie all’intervento della Sezione italiana di Amnesty International e, da allora, dedica la sua vita alla divulgazione della drammatica situazione del popolo tibetano. Durante l’incontro lancia ripetutamente il suo appello a noi giovani: “Cercate di comprendere a pieno la vostra fortuna, perché vivete in un Paese libero, e perché avete l’opportunità di studiare. In questo modo potrete portare avanti il lavoro delle persone che mi hanno salvato. È per questo che racconto la mia storia.” Alcuni di noi salutano Palden stringendogli la mano. Quando arriva il mio turno, congiungo le mani e chino lievemente il capo sorridendo timidamente, in un gesto quasi istintivo; avviciniamo le nostre teste e, mentre mi regala un lieve bacio sulla guancia, gli sussurro grazie all’orecchio.