Zugliano: Centro Balducci, oasi civile contro un mondo di ipocrisia

di Timothy Dissegna

Tutto nacque nel 1988, con quattro ragazzi del Ghana che cercavano un tetto per ripararsi. Da allora sono passati più di vent’anni e il Centro Balducci di Zugliano ha fatto passi avanti, diventando riferimento per tutte quelle persone immigrate nella nostra regione che non hanno né lavoro né una casa dove stare. Fondato da don Luigi Di Piazza nel ’92 per aiutare i più bisognosi, oggi ospita 50 persone provenienti da ogni parte del mondo, dal Paraguay alla Tunisia, giunte in Italia nella speranza di un futuro migliore e di un lavoro. All’interno del centro ci sono appartamenti per gli ospiti che provvedono da soli a cucinare e a fare il bucato, e ogni giorno vengono organizzati corsi d’italiano per aiutare l’integrazione dei nuovi arrivati che non conoscono bene la nostra lingua. Ad accompagnarci nel giro alla scoperta di questo incredibile posto è Matteo Valentinuz, da anni impegnato nella difesa dei diritti degli immigrati con lo status di rifugiati, come gli ospiti del Centro. Lavora nell’amministrazione e si occupa di aiutare don Di Piazza a organizzare gli eventi che ogni anno ci offrono un’occasione per fermarci a riflettere su noi stessi e sugli altri. Ci spiega che il Centro non deve essere inteso come un luogo di arrivo dove stanziarsi, ma come un trampolino da dove partire. Cosa difficile in un periodo duro come questo; spesso infatti ci sono persone che rimangono qui anche per parecchi mesi, se non anni. E sempre più frequente che qualcuno resti senza lavoro e quindi senza permesso di soggiorno, finendo così in un vortice giuridico che lo cataloga come clandestino, anche se è arrivato regolarmente in Italia. Parlando del difficile iter degli ospiti, il discorso cade sui centri d’identificazione ed espulsione, che dovrebbero servire per riconoscere gli immigrati, ma che in realtà sono «inutili e costosi. Neppure il Parlamento è riuscito a capire quanto costino veramente» dice Matteo. E, in tema di denaro, viene spontaneo chiedersi, guardando il grande lavoro che qui viene svolto, chi paghi tutto. Chiarisce subito Matteo: «I soldi ci vengono dalla Prefettura, dal Comune e dalle donazioni private». Andando avanti scopriamo che in pochi anni gli ospiti sono cambiati: una volta erano spesso uomini di vent’anni, mentre ora ci sono anche donne e bambini. Ma per loro le cose sono ancora più complesse: anche se riuscissero a ottenere lo status di rifugiati, le possibilità di trovare un lavoro sarebbero assai scarse. Lo Stato quindi dovrebbe aiutarli, ma spesso e volentieri non è così. Con questa verità amara giungiamo nelle cucine, dove si conclude la nostra visita. Io e Matteo rimaniamo d’accordo di risentirci. Ci sarebbe da parlare per ore e ore sul tema dell’immigrazione e la cosa mi intessa parecchio. In fondo, come si può pensare che questo mondo diventi un posto migliore se non si scoprono le oasi di civiltà più vicine a noi?