Friuli: le tradizioni di Ognissanti e della notte dei morti

di CRISTINA BURCHERI

 
Fu Odilone di Mercoeur, quinto abate di Cluny, a istituire nell’anno 998 l’ufficio dei defunti a partire dal vespro del primo di novembre, mentre il giorno seguente i sacerdoti avrebbero offerto al Signore l’Eucarestia pro requie omnium defunctorum. Il rito, dalla celebre abbazia, si diffuse al resto d’Europa. Nel Friuli di una volta e in tutto il Goriziano era credenza diffusa che la sera di Ognissanti (1 novembre) e la notte dei Morti (2 novembre) le anime andavano a visitare le case, vagando per i corridoi, intrufolandosi negli angoli, soggiornando in quei luoghi che erano stati più cari in vita. Dopo la visita le anime si raccoglievano nel corteo dei morti anche detto la danza dei muarz e insieme raggiungevano mestamente il camposanto, scomparendo nei tumuli. Chi aveva avuto occasione di vederli raccontava di povere bianche immagini o di fiammelle tremolanti. Il fuc voladi era l’anima senza pace di un defunto desiderosa di essere liberata con le preghiere. A tal riguardo, in Friuli, si credeva che chi era talmente sfortunato di incappare in uno di questi tristi spiriti ne sarebbe stato perseguitato per il resto della sua esistenza terrena. Oltre ai dati storici, il folclore regionale riguardo ai primi giorni di novembre ha conservato aspetti che riportano ad antichi riti pagani; in particolare al Capodanno celtico con cui condivide il rispetto e l’ospitalità nei confronti delle anime dei defunti, gli antenati che ritornano nell’aldiqua suscitando nei vivi un sentimento ambivalente di rispetto a paura. Diffusa era anche la pratica per cui ogni famiglia nel dì di Ognissanti dispensasse al popolo una quantità di pane a seconda della propria agiatezza. Quest’offerta non era considerata un’elemosina; ognuno assaggia il pane altrui pregando gli altrui defunti. Il cibo, simbolo di vita, elargito in nome dei defunti, viene ricambiato con preghiere a suffragio della vita eterna. I cibi rituali per questa festa sono a base di farinacei (come a Carnevale le carni e a Pasqua le uova). In città, a Trieste, Gorizia e anche a Udine, era tradizione preparare biscotti per i santi e per i morti, pan dai muartz, ossi di morto e le fave (dolci). La fava (legume), emblema della morte, si consumava in minestra il giorno della commemorazione dei defunti. Valentino Ostermann ne “La vita in Friuli” a fine Ottocento riportava che «in antico usavasi un sortilegio colle fave per causare la morte della persona invisa». Una testimonianza della diffusione di questa credenza giunge dal Santo Officio che nel 1599 inquisì una donna, Anastasia Montagnana da Pordenone, veduta nella chiesa della Santissima Trinità di Polcenigo a rimestare fave nell’olio di una lampada. Durante il processo Anastasia dichiarò che le aveva messe «per far morir un uomo». Credenze simili erano presenti anche nel Bellunese e in Romagna.