Gianfranco D’Aronco: e se tornassimo al grande Friuli?

di GIANFRANCO D’ARONCO

Che a Roma non sappiano o non sapessero cos’è il Friuli, pazienza. Ma non lo sanno neanche, esattamente, molti friulani. Per cui occorre ogni tanto spiegarglielo. Tanto per cominciare: “Siede la patria mia fra i monti, e ‘l mare”, scriveva Erasmo di Valvason nel 1591, “e ‘l Tagliamento l’interseca, et parte”, mentre lo “chiude Liquenza con perpetuo fonte”. Pacifico Valussi nel 1868 affermava che il Friuli, per 350 anni Stato autonomo con il Patriarcato, è nettamente a sé “con una sua geografia, una sua lingua, un suo costume, piccolo compendio nell’universo nieviano”: è “la Regione” per antonomasia, è “la Patria”. Nel 1915 Bindo Chiurlo scriveva una frase magistrale, che occorrerebbe far mandare a memoria agli immemori: «Il Friuli è, ancora, una delle regioni meglio segnate della Penisola». Che i confini storici e naturali della nostra terra vadano dalla Livenza al Timavo è pacifico: così come a nord Sappada è Friuli. Pare che la burocrazia centrale (il più forte partito che esista oggi in Italia) voglia un po’ alla volta adattarsi ad aggiornare le sue scartoffie, prendendo atto dei risultati degli appositi referendum. Dico anche per una parte almeno del Portogruarese, che Pordenone trascura, pur facendo parte di una stessa Diocesi (Sappada è da sempre in Diocesi di Udine). Guardiamo ora al Friuli orientale, vale a dire al Goriziano, chiamato anche Isontino. Gorizia, anzi Santa Gorizia (in friulano Gurize, in sloveno Gorìca, in tedesco Görz), è rinata dalla distruzione dopo il 1918. La sua friulanità (le testate dei giornali del luogo recavano sempre la parola Friuli) fu subito rivendicata. “Al cjante in un sôl mût, di ca e di là dal Judri il rusignûl”, aveva scritto Pietro Zorutti. Significativo il fatto che nel 1919 proprio a Gorizia è nata la Società filologica friulana. Nell’arco di secoli, da Gian Giuseppe Bosizio a Carlo Favetti a Franco de Gironcoli, Gorizia è stata culla di poeti in friulano. Non è senza significato che si tiene in questi giorni nel capoluogo isontino un grande raduno dell’associazione Friuli nel mondo, presenti più di mille emigranti che non sono diventati apolidi e non dimenticano di essere figli o nipoti di friulani. Ma a Trieste non spiacerebbe allargare la sua Provincia, fatta di ben sei Comuni (di cui quattro appollaiati sul Carso), incamerando Gorizia. Nel frattempo la città è tra color che son sospesi, con politici reticenti finora all’invito di aderire alla Unione delle Province friulane. Dall’altra parte c’è Pordenone, che è cosa diversa dal Pordenonese o Destra Tagliamento, dove si parla in larga misura in friulano. L’aspirazione della città del Noncello a diventare Provincia è di lunga data. A Udine il partito di centro si oppose fermamente (protagonista l’allora presidente della Provincia), nel nome della unità del Friuli, sbagliando in pieno. Bisognava “quieta non movere”. Ma intanto prevalsero a Pordenone gli esponenti di quello stesso partito, e Udine arrivò in ritardo a collo torto, non senza lasciare un pesante strascico. Ci volle ancora qualche anno, e Pordenone ebbe quanto desiato, seguendo un iter sostenuto dal buon senso di Tiziano Tessitori: prima la Regione (1964) e poi la Provincia (1968). Non era più tempo di polemiche, e ci si mise a ricucire lo strappo. La friulanità non era in discussione, come testimoniò l’allora sindaco Giacomo Ros. “La Provincia di Pordenone non è nata come elemento di rottura dell’unità friulana, che è comunanza di vicende storiche insieme sofferte, di tradizioni, di aspirazioni, di interessi, ma, nel quadro di questa intatta e permanente unità friulana, ma come elemento di equilibrio territoriale”. Non pare che questi concetti siano stai fatti propri da tutti i successivi politici del luogo. Tra gli ultimi un sindaco, che ha fatto annullare una delibera a suo tempo assunta dal suo Consiglio, in favore della lingua friulana (nella quale lingua Pasolini aveva scritto indarno le “Poesie a Casarsa”). E un presidente di Provincia che, novello Napoleone sul ponte di Arcole (non Arcore), piuttosto che perdere l’ente per la riforma montiana, così duramente conquistato, dichiarava: “Non staremo mai sotto Udine“. “Siamo pronti ad andare sul ponte del Tagliamento per difendere la nostra Provincia”. Ma abbiamo soprattutto un presidente della Regione speciale (che a suo tempo aveva dichiarato di non credere all’autonomismo), il quale, di fronte alla prospettiva del governo di cancellare le piccole province – virtuose o indebitate alla pari -, non reagisce con un doveroso “Giù le mani dalla Regione” (che in materia di enti locali ha facoltà legislativa primaria), ma addirittura afferma che tanto vale eliminarle tutte. Meno male che “per quelle locali”, come ha sottolineato una notevole firma su un importante quotidiano, “lo Stato centrale nulla può, tranne un atto di indirizzo”. E’ sopravvenuto poi un emendamento: saranno le stesse regioni normali a decidere come accorpare o eliminare. Senonché – avvisa il governatore che sappiamo – una Provincia friulana e una Trieste metropolitana (esattamente quello che indicano e la buona politica e il senso comune) vorrebbe dire spaccare la Regione. Laonde per cui, conclude, meglio nessuna Provincia. Così tutto andrebbe in capo a Trieste, come volevasi dimostrare da chi si affanna a eliminare o ad accorpare Ater, Erdisu, Consorzi di bonifica, Agenzie del lavoro, Camere di Commercio, ospedali minori eccetera, concentrando tutto o quasi in un’unica felice città, con di più fuori mano. Noi autonomisti abbiamo lavorato dal 1945 perché la Regione andasse al servizio degli antiautonomisti? Perché decentramento volesse dire accentramento? Altri tempi: Alcide De Gasperi a Udine, 1950: “Se l’Italia fosse tutta come il Friuli, potremmo camminare”. Verrebbe da ridere, se non venisse da piangere.