Tolmezzo: l’eroe partigiano Aulo Magrini (Arturo) fu ucciso dai nazisti

di GIANPAOLO CARBONETTO

 Sono passati 66 anni da quel 15 luglio 1944 in cui, in un’azione partigiana contro i tedeschi, rimasero uccisi i garibaldini Aulo Magrini, “Arturo“, poi decorato con medaglia d’argento, Ermes Solari, “Griso“, e l’osovano Vito Riolino. Per la prima volta domenica, sul ponte di Sutrio la ricorrenza sarà commemorata senza più avvertire la fastidiosa puzza dei sospetti diffusi su quella vicenda da persone interessate soprattutto a la resistenza per bassi motivi politici. A fissarlo una volta per tutte è una sentenza – probabilmente la prima su fatti della lotta partigiana   emessa dal presidente del Tribunale di Tolmezzo, Antonio Cumin, in funzione di giudice unico, acquisendo e valutando gli atti di una causa intentata da Giulio Magrini, figlio di Aulo, rappresentato dagli avvocati Nereo Battello e Barbara Comparetti contro Gianni Conedera autore del libro "L’ultima verità. Da Mirko al dopoguerra".<br />Per fare luce sulla vicenda è necessario ricordare i fatti che hanno portato al contenzioso. Il 15 luglio 1944, un distaccamento partigiano della Garibaldi, di cui Aulo Magrini è dirigente politico, decide di attaccare una colonna formata da tre camion e una vettura, con 150 tedeschi, che sta rientrando dal passo di Monte Croce Carnico e sceglie di farlo vicino al ponte di Nojaris di Sutrio, nel punto in cui una strada che corre lungo il But è sovrastata da una parete a picco. Giunti sul posto, i garibaldini trovano già una squadra osovana impegnata, nel tentativo di sbarrare la strada con dei tronchi. In un veloce incontro fra il comandante del battaglione garibaldino, Ciro Nigris “Marco”, e quello osovano, Terenzio Zoffi “Bruno”, viene concordata la strategia di attacco. Il reparto osovano si posiziona sul lato destro del torrente, parete rocciosa e spoglia, mentre quello garibaldino va sull’altura sovrastante la strada, suddividendosi in gruppi di due-tre uomini. La colonna nazista ha già subito un attacco in località Enfre Tors e ha quindi le armi pronte all’uso. Quando le macchine tedesche sono sotto il tiro partigiano, sono lanciate le bombe al cui fragore fa seguito «un immediato inferno di fuoco di armi automatiche e di una mitragliera da parte dei tedeschi». L’azione dura alcuni minuti, ma la pronta e pesante reazione nemica costringe i partigiani a ritirarsi lasciando sul posto i corpi senza vita di tre compagni.
Quasi subito viene messa in giro la voce che Magrini non sia stato ucciso da proiettili tedeschi, ma da “fuoco amico” in maniera più o meno consapevole. Per le motivazioni le fantasie denigratorie non mancano: chi dice che è stato colpito alle spalle (mentre invece il proiettile lo ha colpito allo zigomo sinistro), chi lascia intendere che sia stato ucciso perché portava con sé un’ingente somma di denaro, chi accusa che siano stati gli stessi partigiani a condannarlo a morte perché avrebbe detto (dopo solo un paio di mesi e mentre scriveva lettere nobilissime) di essere stufo di comandare i partigiani.
E ad approfittarne, per attaccare la Resistenza, è soprattutto Giorgio Pisanò, fascista convinto, Ufficiale della repubblica Sociale ed esponente del Movimento Sociale, che, nell’ansia di approfittare di queste voci, incappa in alcuni errori marchiani definendo Magrini democristiano, cattolico professante, osovano e ucciso per inclinazione politica, su ordine del capo garibaldino “Mirko”.
Buona parte di queste invenzioni vengono riprese più volte negli Anni Novanta, fino a provocare la reazione di Giulio, figlio di Aulo. Ma questo non basta e nel 2006 Gianni Conedera pubblica un libro in cui, senza fornire prove storiche delle sue conclusioni, afferma che il colpo che ha ucciso “Arturo” non solo è partito da arma partigiana, ma che addirittura è stato programmato.
Inevitabile il ricorso alla magistratura da parte del figlio Giulio che presenta, tramite i suoi avvocati, anche i pareri “pro veritate” di Gianpaolo Gri e di Marcello Flores che confutano senza tentennamenti l’attendibilità storica dello scritto di Conedera che si rifà sempre a presunti testimoni anonimi e non verificabili.
Il presidente del Tribunale di Tolmezzo, Antonio Cumin, dopo aver attentamente esaminato l’intera documentazione, ha ravvisato «una lesione di diritti costituzionalmente protetti, quali, appunto, i diritti della personalità» che comprende «quello dell’onore e reputazione», una lesione causata dall’inattendibilità dello scritto provato dall’assenza di «quegli indici minimi storiografici, in presenza dei quali soltanto si può parlare di opera storica, Infatti, com’è noto, è necessario a tal fine che l’opera contenga i presupposti perché la comunità scientifica sia messa in grado di verificarne il contenuto, segnatamente in primo luogo tramite l’esame delle fonti cui si è fatto ricorso per la redazione della stessa opera». Ma la lesione è causata anche, come dice il giudice, dal fatto «che l’illecito contenuto del libro di Conedera» è «in completo contrasto con il contenuto della motivazione della medaglia d’argento conferita in memoria al Magrini».
Infine, dopo aver rilevato che il danno supera il livello di tollerabilità, il presidente Antonio Cumin ha condannato Gianni Conedera alla rifusione dei danni morali e materiali a Giulio Magrini, figlio di Aulo.
Si conclude così definitivamente una dei più squallidi – anche se non l’unico – tentativi di gettare fango sulla guerra di Liberazione, o, quantomeno, di screditare il più possibile la parte della Resistenza maggiormente vicina al Partito Comunista in un gioco al massacro che continua ancor oggi a essere praticato, in quanto gli obbiettivi, anche se non sono più perfettamente coincidenti con quelli dell’immediato dopoguerra, quasi sempre sono legati a mire politiche legate all’oggi più che a un passato che non esiste praticamente più.