Carnia: l’amicizia di due poeti, Giorgio Caproni e Siro Angeli

Siro Angelicaproni2

di Ermes Dorigo.

Giorgio Caproni, trasferitosi a Roma nel 1938, viene introdotto da Libero Bigiaretti nell’ambiente letterario della capitale ed è proprio su sollecitazione di quest’ultimo che gli invia una copia di Ballo a Fontanigorda a Udine, dove Angeli si trovava come sottotenente in forza al II Reggimento Fanteria, con questa dedica: «Caro Angeli, sono lieto di aver avuto dal carissimo Bigiaretti l’invito di inviarti questa plaquette, che esigo… contraccambiata con qualcosa di tuo. Essa, eccetto le poesie segnate, appartiene a un periodo che credo superato in me. A settembre pubblicherò 10 poesie in Poeti d’oggi. Te ne invio una, ch’è il modello ideale, per così dire, di tutte, specie per quanto riguarda il ritmo. Coi più affettuosi saluti, tuo Giorgio Caproni»; poesia autografa sulla seconda di copertina dal titolo Per una giovinetta, che entrerà nella raccolta Finzioni del 1941 col titolo Batticuore, con alcune varianti: miro/guardo, paci finte/pace finta, fidi/affidi, risi/la tua risata. Il loro incontro avviene due anni dopo, come scrive Biancamaria Frabotta, quando si trovano insieme a combattere dal 10 al 24 giugno 1940 sul fronte occidentale contro la Francia. Da qui nascerà l’amicizia d’una vita e un sodalizio culturale, entrambi rievocati da Caproni quando, in occasione della pubblicazione presso Mondadori nel 1962 della raccolta di Angeli L’ultima libertà, ( vedi accanto Sei domande a Siro Angeli) scriverà (Poesie di Siro Angeli in «La Nazione», 30 giugno 1963): «Io conosco Siro Angeli come si può conoscere un fratello, anzi più a fondo ancora, se è vero, come è vero, che un amico liberamente scelto è sempre qualcosa di più confidente e pertinente. Abbiamo patito e spartito insieme Angeli ed io, in anni nerissimi, i sogni e le amarezze, le speranze lancinanti e le tremende delusioni, di un’intera generazione che ha dovuto pagare, col sacrificio della gioventù, tutti gli errori della precedente, e che lanciata insensatamente nella fornace ha saputo tuttavia salvare, quand’ha avuto in sorte di sopravvivere, non foss’altro l’integrità della propria fede in certi comuni sentimenti come in certi comuni principi morali e interessi spirituali, odiati o appena sopportati dalla follia o stupidità dei ‘dirigenti’; i quali peraltro non riuscirono nemmeno col ferro e col fuoco a disperderli o a frantumarli del tutto. E’ stato forse tra noi, Angeli, il più “tutto d’un pezzo”, addirittura d’una moralità che giungeva perfino ad irritarci. Era per noi “l’uomo che crede a tutto”, anche alle Istituzioni così com’esse si presentavano; quasi lo accusavamo – con un punta d’invidia, però – d’ingenuità, forse non accorgendosi che invece, di quelle Istituzioni ormai screditate (la Patria, la Famiglia, la Religione), egli era riuscito a conservare intatto in sé il principio, e a scorgerne ancora il brillìo. […] questo suo libro (è) frutto di una fedeltà, in cui lo ritrovo intero: dico “lui”, Siro Angeli, cioè l’uomo – più unico che raro – capace di “credere” nei sentimenti “onesti” e nelle persone che li suscitano».

Fu sempre un’amicizia discreta, non esibita, in sintonia con la «verecondia» di Angeli come l’ha definita in un’intervista a Carlo Tolazzi del 1998 Elio Bartolini: «Un gentiluomo, una persona rigorosa, convinta, ma non priva di un certo calore, di amicizia, capace di aiutarti discretamente, di grande interessamento alle tue esigenze, ma mai in forma intrusiva».

Angeli_Il grillo della Suburra_Barulli

A Caproni Angeli  dedicò alcune poesie; ad esempio: Andando per strade  (in: Il grillo della Suburra, Barulli, 1975; poi ritoccata nell’edizione Scheiwiller del 1990): « Andando per le strade/ di Monteverde vecchio,/ tra automobili fitte/sotto lampade rade,/ discorrere parecchio/ o poco, non importa/ variare gli argomenti,/ tanto sono inventari/ di rimorsi e sconfitte;/ e, varcando la porta/ d’una bottega, in mezzo/ alle parvenze trite/ di sempre (pane, pasta,/ generi alimentari, ogni cosa il suo prezzo)/ scoprire sulla faccia/ degli altri quanto basta/ perché almeno si allenti/ tra due giri di vite/ il peso che ci schiaccia»; e Genova (in: Da brace a cenere, Lacaita, 1985), piccolo poemetto in due parti: «I. Questa parvenza aleatoria/ che adesso, in una domenica/ di fine marzo, tra rare/ schiarite sotto gli scrosci/ dentro cui il rombo dei treni/ affoga col rombo del mare/ e il giorno precipita a sera,/ a lembi negli occhi balena,/ tu potrai dirmi se è vera,/ o sono io che la immagino/ soltanto, io che a memoria/ sto rinventando la Genova/ che nell’averno dei vicoli/ da te ho potuto conoscere,/ mai vista e già familiare:/ la Genova che si rigenera/ dal niente appena ricigola/ da un verso la funicolare/ nel quarzo delle tue pagine.// II. Anche in una stanza d’albergo/ sopra l’uscita di servizio/ la tua Genova pare riassunta;/ e oltre i vetri che si tergono/ senza promettere che duri/ l’armistizio del temporale,/ la ritrovo in quell’interno/ di casamento che svaria/ il grigio, dentro la larvale/ luce del giorno al suo inizio,/ dal fondo di terra battuta/ dove superstite l’inverno/ ingromma sopra le inferriate/ con il buio delle cantine/ ruggine e polvere, al calcare/ nudo di intonaco sui muri/ fino agli attici d’arenaria./ Ma le persiane spalancate/ resistono in alto verdechiare/ alla salsedine, e l’affine/ colore della vernice aiuta/ ogni filo d’erba che spunta/ dall’alveo di una fenditura/ lungo le scale, ad annunciare/ con l’alito del maestrale/ la primavera nascitura»: una poesia tutta tramata da discrete allusione a lessico ed opere di Caproni. 

Caproni_Autografo

Di Caproni è, invece, una poesia in cui rievoca Udine nella raccolta Cronistoria del 1943, che Giuseppe Leonelli  (Caproni, Milano 1997.) considera paradigmatica,  per comprendere la sua nuova stagione poetica: «una città col suo sole, i colori squillanti e la sua aura di prima giovinezza ritorna attraverso il profumo della fanciulla che sta accanto al poeta:  “Udine come ritorna / per te col grigioverde/ e il sole! Dove si perde/ la mia memoria, torna/ dell’erba la brace verde/ al Castello – l’esangue/ pietra che ora al tuo sangue/ più leggero somiglia.// Torna da te l’odore/ lontano, che si assottiglia/ al tempo: l’odore umano/ di giovinette in gara/ sulle due ruote, e il vano/ desiderio che stagna/ a quei colori.// Via/ tu mi riporti, a un giorno/ di bruciata allegria”. La lirica segna un momento del percorso d’un io che insegue di testo in testo, senza raggiungerlo veramente mai, un ‘tu’ femminile […] Sulla scia di quell’io, sembrano già affacciarsi gli abbozzi di grandi motivi simbolici così tipici della futura poesia di Caproni e sempre strettamente connessi fra loro: la città, il viaggio e il congedo. (Città) della prima diaspora della vita di Caproni, non ancora le città grembo da identificarsi prima in Genova e poi in Livorno».

 

 

In appendice:

 

SEI DOMANDE A SIRO ANGELI.:

 Ultima libertà

Sei domande a Siro Angeli —La Fiera Letteraria, 21/10/1962

(Mai pubblicate, senza un particolare motivo come osservava Angeli nella videointervista Odore di terra VTC; dove sostanzialmente alle domande di Dorigo rispondeva con  le stesse parole) – Copia del testo è stata donata da Dorigo al fondo Angeli, che sarà istituito presso la Cineteca del Friuli

 

  1. D. – Finalmente è uscito il tuo libro di poesie L’ultima libertà. Da quanti anni lo aspettavi? E credi che il ritardo gli sia giovato?
  2. R. – Il volume doveva uscire nel 1959. Tre anni di attesa mi hanno consentito di aggiungere una quarantina di poesie (fra le quali il lungo poemetto Assisi) alle venti premiate al Trebbo di Cervia nel 1958, e di rielaborare a mio agio le une e le altre, Ora, a pubblicazione avvenuta, ignoro se tale lavoro di revisione protrattosi per tanto tempo, sia stato sempre opportuno e mi sia effettivamente giovato. Lo ritengo indispensabile, almeno nel mio caso, ma so che non comporta di per sé una maggiore validità di risultati. Ci si può avvicinare di più a quella che dovrebbe essere la poesia grazie a questo, oppure nonostante questo. Posso dire che ho fatto del mio meglio, ma il bisogno che avverto di riprendere la rielaborazione dei miei versi dopo averli riletti in volume non mi tranquillizza.
  3. Hanno detto di te che sembri riproporre modi e accenti della poesia stilnovistica. Sei d’accordo con questo giudizio critico, o credi che questa “guida di lettura” tradisca (in tutto o in parte) la sostanza del tuo libro?
  4. — Il richiamo alla poesia stilnovistica mi sembra pienamente giustificato, e non solamente per i modi e gli accenti, ma anche e soprattutto per la presenza di un tema dominante l’amore per la donna, sentito come l’esperienza fondamentale dell’esistenza umana, quella che riflette e riassume in sé tutte le altre esperienze, e dà loro valore e significato; e approfondito nelle sue radici psicologiche e concettuali, nei suoi riferimenti metafisici e religiosi. Anche quando affronto altri temi (la vita ultraterrena, il mistero dell’universo e le sue “corrispondenze”, la solitudine, la funzione e il valore della poesia, ecc.), esiste quasi sempre un nesso, esplicito o implicito, con questo motivo centrale, Oltre che agli stilnovisti, il richiamo andrebbe esteso a Petrarca e a Leopardi; e fra i contemporanei almeno a Saba, Ungaretti e Montale. Naturalmente non mi sono rifatto a questi autori di proposito: mi sono trovato a fare i conti con essi; e anche se può sorprendere la molteplicità e la diversità delle influenze, che ammetto di avere subito, spero che quello che ho scritto non si riduca alla loro somma.
  5. Pensi che la tua poesia possa aprire un nuovo discorso, se letta e capita bene? In pratica, vorresti dire qualcosa ai critici e ai lettori?
  6. – Benché una domanda del genere possa lusingarmi, non ho esitazioni nel dare una risposta negativa. Non presumo assolutamente di bandire messaggi o di scoprire verità, né di portare alcun contributo a innovazioni espressive. Il mio modo di concepire la poesia e di farla è rimasto quello tradizionale. Spero che non sia anche convenzionale, perlomeno non sempre; ma posso sbagliarmi. Comunque, sono convinto che sia più meritorio e anche più proficuo, ai fini di un rinnovamento da tutti auspicato, rifarsi alle esperienze più recenti della poesia italiana e straniera. Per quello che mi riguarda, sono piuttosto per l’autonomia che per l’eteronomia dell’arte il che non significa considerarla fine a sé stessa, evasione, torre d’avorio, negare la sua socialità e la sua storicità. Non sono insensibile all’esigenza dell’impegno, ma temo che esso divenga controproducente, se non è accompagnato da una altrettanta viva capacità di distacco. Ho l’impressione che oggi si tenda ad accettare l’impegno come una legge imposta dall’esterno, anziché a servirsene come urgenza interiore; a servirlo ciecamente a priori, senza servirsene consapevolmente in concreto. Ritengo sia indispensabile aderire all’attualità, ma senza dimenticare che si corre il rischio di confonderla

Autogrfo Angeli

E mi sembra che non si risolva il problema con la scelta di certi contenuti e il rifiuto di altri (esistono oggi dei temi “privilegiati”) né con il puntare sulla registrazione o sulla protesta invece che sulla rappresentazione o sulla interpretazione: sul grido invece che sulla parola, sulla lacerazione e disintegrazione sintattica invece che sul discorso logicamente costruito. Dubito che la crisi, il disordine, il caos trovino miglior espressione nel disordine piuttosto che nell’ordine formale. Per questa strada si finirebbe con il dare una riproduzione esistenziale, una ripetizione quasi materia1e dalla realtà, invece di reinventarla e trasporla in una dimensione totalmente diversa.

  1. Sei uno scrittore appartato e modesto (scusa la spicciativa definizione). Perché lo sei? Pensi che il riserbo sia una dote necessaria per un poeta? Non senti di comportarti in modo diverso da come vorresti intimamente?
  2. – Appartato sì, modesto non so. Per temperamento sono incline a partecipare, a comunicare, a chiedere e a offrire confidenza e solidarietà. Tra l’altro, sentendomi assai poco sicuro delle mie effettive capacità, ho particolare bisogno di ricorrere al giudizio di qualcuno, che sappia e voglia conciliare la comprensione, che nasce dall’amicizia con la sincerità senza riserve; e ciò capita abbastanza di rado. Posso aggiungere che il riserbo mi è consigliato anche dalla constatazione di casi sempre più frequenti in cui si eccede in direzione opposta.
  3. Il teatro ti interessa ancora? E c’è un accordo di fondo tra la tua poesia e il tuo teatro, addirittura c’è un punto nel quale convergono?
  4. – Tornare a scrivere per la scena mi sta a cuore quanto continuare a comporre versi. Ma se alla poesia riesco a dedicarmi anche nei ritagli di tempo concessimi dai miei impegni professionali per il teatro è diverso. Posso abbozzare e maturare a lungo una vicenda drammatica solo mentalmente, senza prendere appunti; ma per la stesura vera e propria mi è indispensabile disporre interamente delle mie giornate. Anche il cinema esige la sintesi, la scelta del particolare significativo, la traduzione di idee e concetti in immagini, e in particolare il senso della costruzione. Se non mi inganno nell’avvertire nelle mie liriche un impianto strutturale piuttosto solido, certo la mia esperienza di sceneggiatore vi ha contribuito non meno della mia esperienza di autore drammatico. Ed è probabile che nell’accanimento, che metto a rielaborare decine e talvolta centinaia di volte una poesia, che nessuno mi ha ordinato di scrivere, vi sia una intenzione più o meno consapevole di rivalsa e di riscatto, per le migliaia di pagine che ho scritto su ordinazione, con l’angoscia di non fare in tempo per la scadenza fissata sul contratto.
  5. Cosa hai pronto, e cosa stai approntando per le stampe?
  6. – Preparo da tempo una nuova raccolta di poesie che spero di avere pronte entro l’anno. Il nucleo sarà costituito da un lungo poemetto, già apparso due anni addietro in una rivista, Il grillo della Suburra, nel quale mi è avvenuto – per la prima volta in venticinque anni che vi abito – di prendere Roma a soggetto. Ne è venuta fuori, con mia sorpresa, una rappresentazione della città come un inferno.

 

 

 

 

Incipit de L’ultima libertà

 

 In un volo di ruote al noto valico

le nostre ombre vicine ci precedono

sul viale, tra immote ombre di tigli;

e sui margini il cielo dei fossati

le muta in chiare immagini a ripeterci

che qui, ora esistiamo. Foglie e aghi

di pino dall’inverno sotterrati

riassommano alla luce dall’accidia

dell’acqua in fiori nuovi. In levità,

come tu dentro il nome a cui somigli,

con la tua vita intera (anche la treccia

che non vidi) Versilia si raduna

nel mio sguardo se intorno esso divaghi

‑ e messaggera sulla carrareccia

morente nel declivio della duna

ci sorprende la brezza. S’aprirà

tra breve oltre i grovigli, oltre l’insidia

dei rovi litoranei, la lacuna

silvestre, familiare ai nostri esigli.♣