di Ermes Dorigo.
Un quadernetto di cm 12,5 x 19,5; copertina in cartone telato rosso bordeaux con un riquadro medio alto di cm 5,5 di fondo grigio a fregi neri di stile liberty nel riquadro interno e nella cornice e il titolo al centro in caratteri bodoni, Poesie; sopra, scritto col normografo in lettere maiuscole, il nome dell’autore: SIRO ANGELI; i risguardi sono di fondo grigio con un decorativo più scuro fogliame; una pagina bianca e nella successiva si legge come frontespizio, scritto a penna stilografica: Siro Angeli – Solevento – (Poesie) – (1928-1931).Complessivamente esso è composto di 44 pagine, di cui tre vuote e le altre facciate numerate a penna dall’1 all’81 (la pagina 45 è ripetuta: la seconda, in realtà è la 55), con le poesie che iniziano sempre sulla facciata di destra, come in un libro vero, che è quello che il giovane Angeli voleva costruire con mezzi artigianali.
La grafia, pur adolescenziale – egli scrive queste poesie tra i quindici e i diciotto anni – è piccola, sicura e sciolta, fuorché nelle ultime sei liriche, dove diventa più grande, un po’ scomposta, con caratteri più infantili, come se agisse un’ansia regressiva dentro o come se la poesia non fosse più in grado di aiutarlo a elaborare il lutto della recente traumatizzante scomparsa della piccola sorella Elsa, morta di peritonite a soli sei anni, cui dedica una poesia in francese:
Il ne reste désormais de toi
qu’une chose d’immortel:
ton sommeil.
Il ne me reste désormais qu’une chose
qui me parle de ton existence,
une chose que je haïs et que j’aime,
que je voudrai perdre et saisir:
ma douleur.
Désespérément je t’appelle
et tu dors
loin
dans les nuits fanées
de ton rêve éternel.
In effetti, da questa tragica vicenda, da un dolore vero, deriva la motivazione interiore alla scrittura di queste poesie, che sono improntate dal senso e dalla scoperta violenta e cruda della Morte, che determina nella mente (lo si coglie soprattutto in una poesia, Fontana:«Ero venuto per incontrare/ la mia lontana adolescenza […] Tu non sai questo volto coperto di rughe»), un indelebile ansioso stato psicologico di solitudine, isolamento, invecchiamento precoce, sul quale tornerò.
A proposito del tono mortuario paradigmatica del cupo turbamento interiore del poeta è la sua visione allucinata della città di Udine (probabilmente contemplata di notte dal Castello) nella poesia Rosario:
Quassù, le strade
sembrano enormi pallide croci
su croci
fra croci
prigioniere tra i massi delle case
Luci sgranate ineguali nel buio
compongono immensi rosari incrociati
clamanti una loro profana preghiera
Luci sospese davanti a ogni casa
della città che pare
un cimitero nella notte dei morti
come lampade votive
su tombe
La raccolta, pur facendo emergere quelle che saranno poi alcune costanti stilistiche di Angeli – l’incunabolo è come l’imprinting psicologico della nascita e della fase perinatale, che plasma la nostra psiche, e che poi, pur con arricchimenti e ampliamenti emozionali e culturali, determina in forma definitiva la nostra strutturazione e percezione della realtà – rivela, e non potrebbe essere altrimenti, vista la giovane età, un certo eclettismo per quanta riguarda i molteplici, intrusivi e diffusi echi letterari che la connotano, e una certa discontinuità nella metrica e nella versificazione, come illustrerò più puntualmente in seguito.
La presenza di Pascoli (colpisce, ad esempio, l’imitazione della clausola strofica allusivamente variata de L’assiuolo: chiù/ Ma sei, tu; mai più), nella cuna della poesia mortuaria del quale lo porta inevitabilmente l’irrisolta elaborazione del lutto per la morte di Elsa (tutta la raccolta è percorsa dai segni devastanti del tempo e del nulla della Vita: inerti, morte, piangendo, moribonda, singhiozzo, tomba, nulla, rughe, ferite, triste, stanco, pena, disperazione, strazio, disperato, ombra (morte), dolore, ciechi, morire, spenti, spasimo, silenzio, morti, malato/i, croci, cimitero, lampade votive, vuoto, pianto, impiccarmi, sfinito, tormento, suicida, agonizzanti, sepolti, moribondi, agonia…), è pervasiva non tanto o non solo nel lessico (nido, siepe, cimitero, strada bianca, campane…) e nella rielaborazione di alcuni testi: in Alba, un’ala di colomba è variatio evidente di un’ala di gabbiano di Temporale, quanto nella commistione di linguaggi, nelle figure retoriche, nell’uso discontinuo dello stile nominale.
Riporto alcuni esempi a conferma dell’eclettismo e del suo precoce aggiornamento culturale sulla poesia a lui contemporanea: Striscia di piombo/ l’acque di piombo e cupe strisce,Montale; i salici/piangendo/ dove i salici piangono davvero, Montale; fontana canti/ fontane cantare, Corazzini; singhiozzi fontana?/ il lungo singhiozzo de le fontane, Govoni; lontana adolescenza/ dalla lontana adolescenza vengono, Saba; flutti lunari/ flutti di cielo, Rebora; capelli di sole/ ma i bei capelli di color di sole, Gozzano (capei d’oro, Petrarca); occhi di mare/ occhi grandi di mare, Palazzeschi; Tu non sai/Tu non sai come sia dolce la vita, Saba; lenzuolo di buio/ per impiccarmi alle stelle// da cui spiove il lenzuolo/de la morte, Govoni; pena/ uomo di pena, Ungaretti; acerbi e il nulla, Leopardi; vana speranza/ vane speranze, Petrarca; Amore e morte; Leopardi; Dopopioggia, Montale; sterpi, Dante e Montale; siepe, ciglia, frutta acerba, Pascoli e D’Annunzio. C’è pure un’accentuata presenza di un lessico di area crepuscolare: triste, stanco, cuore, anima, morte, piangere, cosa (solo, forse), dolore, ombre (ricorre 10 volte), singhiozzo. Forte la presenza di Ungaretti, sia nella brevità ‘fulminea’ di molti testi, sia nel legame (inscindibile per la comprensione) titolo/testo, sia nell’abolizione spesso della punteggiatura, ma soprattutto nella variatio di immagini e nelle riprese lessicali: Autunno: Uno a uno/come le foglie/ si staccano i giorni/ del tempo// Soldati: Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie; nomade; naufragio; stendermi/ mi sono disteso; come una pietra usata/mi lascerò levigare// L’Isonzo scorrendo/mi levigava/ come un suo sasso.
Il trauma della scoperta giovanile della cruda violenza della morte determinerà in Angeli un senso di solitudine, insicurezza psicologica e incertezza di identità per tutta la vita, per cui, per trovare protezione, sicurezza e consenso al suo poetare egli si rinserrerà, negli anni successivi, nella ‘forma chiusa’, pur sperimentale e personalmente declinata, ma pur sempre chiusa come una casa, nella quale continuerà a vivere in un’ideale compagnia con la cerchia virtuosa dei consentanei poetici, per cui i richiami agli altri poeti continueranno, meno ‘visibili’, nelle raccolte più alte e mature, ma in maniera ancora molto evidente, vicina a quella dell’incunabolo, nella prima edizione de Il grillo della Suburra sulla rivista Segnacolo nel 1960, addirittura trenta anni dopo: accanto a Dante, il Parini (poeta prediletto per la sua moralità e per il culto della forma) delle Odi con delle vere e proprie appropriazioni linguistiche: «palagi, pendice, Stige, trivi, cure e affanni, per lucro ebbe a vile/ la salute civile, putridi stagni, aura molesta, bitume, aliti corrotti, gran folla urla di gente, tumulto, trabocca, riverberar, Sirio feroce ardea, l’obliqua furia dei carri»; Leopardi: «impetra»; Carducci: «tessere (biglietti), cesarie»; Pascoli: «tumulti di fontane/tumulti d’aeree frane», «gore», «altana»; Gozzano: «cimasa»; D’Annunzio quasi con pudore:«lama di luna/falce di luna, tratturi»; e poi Ariosto, Verga («fiumana» del progresso); Metastasio: «velenosi fiati»; Burchiello: «ambianti» (i cavalli) un apax legomenon nella letteratura italiana; per i contemporanei, certamente l’amico Caproni («a sé solo/ nella notte abito solo»); la rarefazione della punteggiatura del primo Ungaretti; Montale («muri scalcinati, canicolari, trama, nembo…») e, dietro di lui, soprattutto Camillo Sbarbaro di Pianissimo: «Nella città tumultuosa… mi dimentico il mio destino d’essere/uomo tra gli altri e, come smemorato,/ anzi tratto fuor di me stesso, guardo/la gente con aperti estranei occhi […] Fronti calve di vecchi, inconsapevoli/ occhi di bimbi, facce consuete/ di nati a faticare e a riprodursi,/ facce volpine stupide beote […] E conosco… il lor destino ultimo, il buio»; Angeli rielabora questo stimolo in chiave di espressionismo deturpante e repellente a urlare, quasi, il suo atto d’accusa per una società che abbruttisce l’umanità: «Calvizie di crani/ protuberanti, lardo/ e cotenne di nuche,/ torsi di mansuefatti/ gorilla irti di muscoli […] volumi sinodali/ di addomi disfatti/ straripano; incàvi/ di ascelle che secernono/ lezzo caprino…/ e macilenza/ di zigomi e mandibole prognate».
Grazie a Ermes Dorigo, da sempre attento studioso e interprete della poesia di mio marito Siro Angeli; grazie a Aldo Rossi che ha gentilmente ospitato nel suo blog questo approfondito e gratificante articolo. Alida Airaghi