Codroipo: per Tolazzi la narrativa friulana in prognosi riservata

di CARLO TOLAZZI
presidente della giuria
del premio San Simòn

A Codroipo, la trentesima edizione del premio letterario in lingua friulana “San Simòn” ha laureato ieri sera vincitore Alberto Luchini con il romanzo Coventave vê pora?, scritto nella varietà “di là da l’âghe”, quella di Casarsa , per semplificare. Luchini fa il tris, avendo già vinto il premio nelle edizioni del 1999 e del 2001. La giuria ha anche attribuito una segnalazione al romanzo Dôs di trê, di Stefano Gasti. Qui accanto pubblichiamo un commento su questa edizione del premio, inviatoci da Carlo Tolazzi, presidente della giuria.
 
San Simòn ha partorito il romanzo, quindi. Non era scontato, l’anno passato non era successo, ad esempio. Capita, ai santi. Pensate al sangue di San Gennaro, mica si liquefa ogni anno. E infatti la giuria ha votato il lavoro di Alberto Luchini a maggioranza, e non all’unanimità, segnale di un verdetto contrastato, non facile da emettere. Se ci si addentra poi nei particolari della partecipazione al concorso, e della composizione delle opere pervenute alla giuria, c’è poco da esultare per la fumata bianca. Tredici dattiloscritti facevano ben sperare, se non altro rispetto alla partecipazione dell’anno passato (5 sole opere), ma a un occhio abituato a questo concorso già i titoli smorzavano l’entusiasmo, titoli gonfi di retorica e di vecchiume. La lettura dei testi ha poi confermato le impressioni epidermiche, denunciando uno stato di salute della narrativa in lingua friulana (se accettiamo l’assunto che il “San Simòn” debba esserne la vetrina più qualificata) piuttosto precario, da prognosi riservata, per capirci.<br />
Trent’anni di vita sono già considerevoli per un premio letterario, danno lustro e merito all’amministrazione comunale di Codroipo che organizza il concorso, ma offrono anche il fianco a bilanci e paragoni impietosi. Alan Brusini, pre Antonio Bellina, Ovidio Colussi, Gianni Gregoricchio, Amedeo Giacomini sono alcuni dei vincitori delle prime edizioni del premio, negli anni Ottanta. E la distanza da loro è ormai siderale. Si può anche prendere a prestito la motivazione che il trend globale e nazionale viene in qualche modo riflesso nella produzione in marilenghe, ma il mezzo gaudio di fronte al male comune è già una dichiarazione di resa. Non è il disfattismo a ispirare queste valutazioni, ci sono altre componenti.
Nei lavori pervenuti alla segreteria del premio domina una meticolosa cura del mezzo espressivo, la grafia è curata, l’uso dei plurali appropriato, le concordanze osservate con precisione, compaiono anche dei tentativi di neologismi propri di una lingua in vitro, non certamente appannaggio dell’uso popolare (e a questo proposito l’Agenzia regionale per la lingua friulana avrebbe modo di bearsi e sentirsi correa insieme), ma è proprio qui il grande malinteso: in narrativa forma e contenuto non si identificano, serve inventiva, serve fantasia, serve poetica. Quando assolvi bene l’obbligo della scrittura corretta, delimiti la cornice, ma ce lo devi mettere dentro un disegno, e in generale l’esposizione del premio San Simòn di quest’anno è una rassegna di tele pallide e inguardabili, delle “croste” direbbero gli esperti.
Secondo punto: l’organizzazione di una trama. Il bando di concorso prevedeva un minimo di 60 cartelle dattiloscritte, e le 12 opere pervenute hanno rispettato questo criterio, soddisfatto ora con mezzucci mortificanti (riduzione dello spazio grafico nella cartella, frequente ricorso dell’andare a capo, capitoli ristretti a pochissime righe), ora con ripetizioni stucchevoli dei concetti o con inutili descrizioni accessorie, ora addirittura inserendo “pistolotti” morali o pedagogici che hanno soffocato le brevi (ma legittime!) intrusioni delle trame nel corpo del romanzo, ora spezzettando il tutto in una miriade di raccontini o di episodi tratti dalla vita del paesello.
Non sono molte 60 cartelle se c’è una storia da raccontare, la fatica ad arrivare al minimo sindacale è purtroppo indice di mancanza di idee, ma a ben guardare un altro dato emerge da questa difficoltà e da come si è tentato di aggirarla: l’età media dei partecipanti al concorso (immaginata già in sede di lettura e confermata poi dall’apertura delle buste nominative) che è alta, oltre il mezzo secolo, e che diffonde sul premio un afrore naftalinico che ammorba.
Risparmiamo qui ogni lungaggine sul futuro di una lingua, piuttosto segnaliamo piuttosto l’esistenza di una rivista (“La comugne”) che offre della letteratura friulana qualitativamente significativa, ma i cui collaboratori evitano il “San Simòn”, per snobismo forse, o per incapacità a reggere la lunghezza di un romanzo.
Terzo punto: la latitanza della letteratura. Un romanzo nasce anche da quanto lo precede e dallo spessore di questo quanto. Si impara a scrivere leggendo, perché si affina uno stile, o più di uno, perché ci si appropria di una poetica, di un modo. Anche nei (pochi) romanzi pervenuti a questa edizione del “San Simòn”, la sensazione che si coglie è questa mancanza in generale di motivi, di ispirazioni e di incursioni letterarie.
Una produzione che si avvita su sé stessa, quella friulana, che snobba la letteratura italiana e oltre, destinata ad avvizzire in quanto il “fasìn di bessoi” in letteratura non paga, anzi. Sono ormai un paio d’anni che questa denuncia risuona nei locali della biblioteca di Codroipo durante la premiazione del concorso letterario, ma è voce che si perde nel deserto.
Chiudiamo rilevando la solita, cronica carenza di contributi femminili (3 soli quest’anno, e comunque in 30 anni di esistenza, solo due volte il “San Simòn” ha impalmato una donna), mentre una fastidiosa sensazione ci attanaglia: una volta la legittimità di una parlata a fregiarsi del titolo di lingua si fondava sulla presenza di una grammatica e di un lessico originali, sul numero dei parlanti e sulla produzione letteraria. Oggi pare di no, oggi ci si fa forti solo del numero dei parlanti, con la stessa superficialità con cui Face-book determina il grado di socialità di ognuno di noi.
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