Carnia: serie di eventi per rievocare le stragi di Malga Pramosio e Bosco Moscardo, si ricorda il luglio del 1944

di Tanja Ariis

Una carrellata di eventi per non scordare l’eccidio della Valle del Bût: nel 68º anniversario da quei tragici fatti, anche quest’anno la Comunità montana della Carnia, in collaborazione con i Comuni della Valle del Bût e con l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ha organizzato una serie di incontri significativi (tutti a ingresso gratuito) per tener viva la memoria sul luglio del 1944, drammatico per la Carnia, insanguinato dalla cieca violenza delle truppe di occupazione nazifasciste che costò la vita a decine di persone tra anziani, giovani, donne e bambini. Il 21 luglio 1944 si consumò la strage di Malga Pramosio e Bosco Moscardo: un gruppo di fascisti e nazisti, camuffati da partigiani, uccise in malga 16 civili, mentre stavano pranzando. Poi lungo la strada incontrò due donne che violentò e ammazzò. In località Moscardo uccise, invece, due uomini che tornavano dal lavoro e, sempre sotto le sembianze di partigiani, si recò a Cercivento dove ammazzò altre 3 persone. Il 22 luglio un commando nazifascista raggiunse Paluzza, prelevò dalle case decine di persone trascinandole in municipio dove consumò orribili violenze assieme al gruppo dei falsi partigiani di Pramosio. Poi uccise 7 ostaggi sul ponte di Sutrio dopo aver compiuto altri omicidi a Sutrio. Altre 11 persone (Paluzza, Arta Terme e Cercivento) furono uccise lungo il percorso verso Tolmezzo. Per ricordare quei fatti a Paluzza è stato proiettato il documentario “Carnia 1944, il sangue degli innocenti” di Dino Ariis, sugli eccidi di Malga Lanza e Malga Cordin. Oggi, nella cappella della malga di Pramosio, alle 10.30 sarà celebrata una messa. Alle 21 alla Galleria d’arte moderna “Enrico De Cillia” di Treppo Carnico sarà proiettato il documentario “Carnia 1944. Un’estate di libertà”, dedicato all’esperienza della Repubblica partigiana della Carnia. Saranno presenti il regista Marco Rossitti e lo sceneggiatore Carlo Tolazzi. Domani, alle 10, ci sarà la deposizione di una corona d’alloro a Paluzza e poi, con partenza del corteo alle 10.30 da Sutrio, deposizione di una corona sul Ponte sul fiume Bût, alle 11, a Sutrio. Alle 20.30 a Ravascletto, all’ex scuola elementare, andrà in scena lo spettacolo “Assedio” (regia di Nicoletta Oscuro e drammaturgia di Barbara Bregant). La carrellata di eventi si concluderà mercoledì, alle 21, a Cercivento, alla Cjase da int: il “Canzoniere di Aiello” darà vita a una serata di musiche e canzoni ispirate alle vicende della Resistenza e alla loro attualità.

3 Risposte a “Carnia: serie di eventi per rievocare le stragi di Malga Pramosio e Bosco Moscardo, si ricorda il luglio del 1944”

  1. Per contestualizzare: pochi mesi dopo sarebbe nato

    IL GOVERNO CIVILE DELLA ZONA LIBERA DELLA CARNIA

    Le Cooperative assumono fin dall’inizio del Novecento, quando erano presenti circa 120 di queste associazioni, un ruolo considerevole per quanto concerne l’evolversi della società in Carnia; infatti, la costituzione di tali associazioni hanno creato in questa zona una partecipazione attiva a livello economico, sociale, amministrativo e politico. Le Cooperative si sono diffuse allo scopo di creare degli strumenti di progresso, favorendo il miglioramento della qualità della vita delle popolazioni montane, combattendo la povertà e l’usura presenti sul territorio carnico.
    Tra queste sono ancora presenti la Cooperativa Carnica di Consumo, fondata nel 1906 dai socialisti, e diverse Casse Rurali e Artigiane, fondate dai cattolici – la prima nel 1900 -, che nel 1994, dopo la fusione, hanno assunto la denominazione di Banca di Credito Cooperativo della Carnia, modificando lo statuto sociale in linea con le disposizioni contenute nella Legge Bancaria d.lg. n° 385/1993.
    Durante il periodo fascista, però, queste associazioni vennero represse, in quanto il regime non riconosceva il diritto di associarsi liberamente come previsto all’art. 18 (“I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”), mentre la nostra Costituzione riconosce ad esse all’art. 45 un ruolo fondamentale: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”.
    La formazione della Giunta di Governo della Zona Libera rappresenta il punto d’arrivo di questa tradizione cooperativistica e un modello per la successiva creazione della Comunità carnica.

    La Zona Libera della Carnia e del Friuli fu una vera e propria isola democratica in un territorio invaso ed annesso alla Germania dopo l’8 settembre 1943. Il primo obiettivo dei dirigenti politici e militari della Resistenza carnica e friulana fu quello di costituire nuovi e legittimi organi di potere locale i sindaci e le Giunte comunali per gestire la normale attività amministrativa. I Sindaci e le Giunte comunali popolari dovevano essere eletti dalla popolazione. Così, dalla fine di agosto a tutto settembre, nei comuni della Zona Libera si svolsero le elezioni, le prime libere elezioni in Italia dopo venti anni di regime fascista. Si votò per capifamiglia, secondo la tradizione delle latterie sociali, l’unico modo possibile in quelle circostanze, e votarono anche le donne se ricoprivano tale ruolo.
    Le Giunte comunali, composte da un numero variabile di persone, da cinque ad undici, avevano il compito di amministrare la vita del Comune, di costituire la Guardia del Popolo (cioè la Polizia Municipale), di amministrare i beni pubblici, di organizzare il servizio di alimentazione, di contribuire alla lotta, dando aiuto alle formazioni partigiane. Le Giunte rappresentarono un successo non solo per l’affermazione di principio costituita dal fatto che erano state liberamente elette dalla popolazione, ma per come funzionarono: tenevano pubbliche sedute alle quali partecipava la comunità, che poteva così discutere i problemi che direttamente la riguardavano.
    Verso la metà di agosto del 1944 scaturì l’accordo sulla necessità di costituire un Governo della Zona Libera della Carnia e del Friuli, cioè un Governo civile unico di tutta la zona liberata. Esso fu costituito ad Ampezzo il 26 settembre del ‘44. La Giunta era composta da cinque rappresentanti dei partiti antifascisti ed era allargata, con funzioni consultive non deliberative, ai rappresentanti, delle formazioni partigiane e delle organizzazioni di massa, cioè i Gruppi di Difesa della donna, il Fronte della gioventù e i Comitati dei contadini e degli operai.
    Aveva così inizio un’esperienza di alto valore politico e civile che, a detta anche degli storici, non ebbe eguali in nessuna delle repubbliche partigiane sorte in altre zone d’Italia nella primavera estate del ‘44 e che ebbe il carattere peculiare di un’esperienza di autogoverno caratterizzata da autonomia di decisione, dalla facoltà di legiferare e di operare autonomamente, senza interferenze da parte dei comandi partigiani.
    Fu un’esperienza breve durò infatti dal 26 settembre al 10 ottobre, (giorno in cui il grande rastrellamento scatenato da nazisti, fascisti e cosacchi pose fine a questa esperienza) – ma di grande significato per l’intensa azione di riorganizzazione civile che fu proposta. Non dimentichiamo che l’azione di governo della Giunta della Zona Libera fu svolta in una zona annessa al III° Reich, strategicamente essenziale per le comunicazioni ed i trasporti da e per la Germania; assegnata infine a orde disperate di cosacchi e caucasici, che si erano qui insediati con le loro famiglie e ai quali era stato promesso che, a guerra finita, la Carnia sarebbe diventata la loro patria, la Kosakenland.
    In quelle condizioni difficili si svilupparono concetti di democrazia che sembravano ormai dimenticati dopo venti anni di dittatura, e quelle esperienze anticiparono principi che furono poi ripresi nella Costituzione dell’Italia repubblicana.
    Vediamo, come esempio, due decreti, relativi alla riforma tributaria e alla giustizia.
    Nel primo caso la Giunta di Governo elaborò un decreto di carattere finanziario, con il quale vennero abolite tutte le imposte e le tasse esistenti e venne fissata un’imposta straordinaria sul patrimonio, la cui consistenza doveva essere accertata dalle Giunte popolari comunali. L’imposta era progressiva e partiva dal 2% per i patrimoni di 200.000 lire per giungere all’8% per quelli di un milione; per noi è una anticipazione di quanto previsto all’art. 53 della nostra Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
    Per quanto riguarda la giustizia fu decretata l’istituzione del Tribunale del popolo, che doveva giudicare tutti i reati che non avevano carattere politico o militare, cioè i reati comuni. L’importanza del decreto sulla giustizia risiedeva soprattutto in due principi fondamentali: il principio della gratuità della giustizia e l’abo1izione della pena di morte per tutti i reati comuni (Art 27, comma 4°: “Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”).
    Un primo provvedimento, però, fu il decreto sulla riapertura delle scuole elementari. Data l’impossibilità concreta di stampare un nuovo manuale scolastico, i giovani del Fronte della Gioventù, ovviamente i più interessati ai problemi della scuola, suggerirono l’adozione provvisoria del libro Cuore di Edmondo De Amicis.
    Romano Marchetti, interpellato dal nostro professore sul motivo di questa scelta, ha risposto così: «Cosa vuoi che ti dica? L’indicazione non era così ingenua come può oggi apparire: dopo un ventennio di esaltazione della forza e di educazione allo spirito guerriero fra i giovani (si ricordi il motto di Mussolini “Libro e moschetto fascista perfetto”) il libro di De Amicis diventava un testo di tutto rispetto ed apprezzabile per il richiamo ai buoni e semplici sentimenti ed anche un segnale di continuità con la storia risorgimentale, rispetto alla quale, per noi, il fascismo rappresentava una parentesi degenerativa».
    A questo punto, per onestà intellettuale, e per non dare adito a false supposizioni di preclusioni ideologiche, avendo scelto motivatamente alcuni personaggi e non altri, ci pare corretto sottolineare l’importanza avuta dai rappresentanti del PCI nella lotta di Liberazione e nella costituzione della Zona Libera e lo facciamo ancora, grazie alla sua disponibilità, con le parole di Romano Marchetti: «Ai comunisti della Garibaldi-Carnia va il mio riconoscente ricordo per il notevole contributo dato alla guerra di Liberazione e soprattutto alla creazione della Giunta Civile della Repubblica democratica nella Alpi e Prealpi Carniche che, secondo alcuni storici (prof. Dondi dell’Università di Bologna) è stata la più perfetta e democratica tra tutte; in questo caso grande merito ebbe il comunista dott. Gino Beltrame; per il ruolo principe nella costituzione dei Sindaci della liberazione, nonché dei CLN comunali, di vallata, della Carnia, che ne furono premessa: in questo caso emerge soprattutto la figura di Tranquillo De Caneva. Ritengo mio dovere ricordare almeno alcuni dei comunisti della Garibaldi, che si distinsero particolarmente: Augusto Nassivera (Nembo), che si era messo in luce a seguito della Festa degli alberi a Forni di Sotto, strappando dall’aiuola quell’albero che, in omaggio al fratello Arnaldo, Benito Mussolini aveva comandato venisse piantato in ogni comune: nel 1945, partigiano tra i primi, divenne comandante garibaldino; il dott. Aulo Magrini (Arturo), sacrificatosi per difendere i propri compagni, di cui già tanto s’è detto e scritto, che aveva fatto pure parte della rete pro-resistenza, creata in Carnia da osovani nell’inverno ‘44/’45; Italo Cristofoli (Aso), pure lui comandante partigiano della Garibaldi, ucciso in azione a Sappada: era di Pradumbli, paese famoso per il gruppo di anarchici che lo caratterizzava; Tranquillo De Caneva (Ape), cui ho già accennato, dopo il 1945 fu emigrante, minatore e poi responsabile di livello nella CGIL, tanto da venir chiamato a Roma da parte di Togliatti, per dirigere il settore Assistenza, in seguito fu anche Consigliere regionale; naturalmente non si può dimenticare l’azionista Elio Martinis (Furore). Non è il caso di passare sotto silenzio anche alcuni che, all’inizio osovani, passarono poi nelle file della Garibaldi, come Decio Deotto e Giovanni De Mattia (Lupo). Credo infine che la propaganda comunisto-garibaldina abbia avuto il merito di riscattare molti giovani, plagiati dall’ideologia fascista, dando loro una piena dignità umana e civile, anche se in qualche modo condizionata da un credo fideistico».

  2. ROMANO MARCHETTI

    UN ANTIEROE DEL NOSTRO TEMPO

    “Une côce in miéč al prât/ une côce iò ai cjatât”: così cantilenando, arrivava coi suoi occhietti furbi il pittore Arturo Cussigh e si sedeva, al Roma, accanto a Romano e a me vicino al fogolâr, balcone sopraelevato, da dove si dominava la sala affollata di avventori, seduti o in piedi sulle verdi piastrelle abrase attorno al bancone, appartati dal romorìo a folate dell’ambiente fumigante; di tempo in tempo passava Gianni Cosetti, assorto o ruspio o amabile conversatore, ad attizzare il fuoco ed una sontuosa fiamma, che dalla primavera all’autunno era sostituita dalle traboccanti e sgargianti composizioni floreali della sorella Liliana. Era divenuto un appuntamento rituale: l’ironia di Cussigh e la passione indignata di Romano che, traendo dalla tasca un foglio dopo l’altro, dimostrava con grafici, ragionamenti, schizzi il tradimento nei confronti della Carnia dei politici locali, succubi del latrocinio udinese.
    Credo che il nostro primo incontro a tu per tu sia avvenuto dopo il terremoto del 1976 proprio sull’entrata del Roma e che egli si sia rivolto a me con un rimbrotto, per aver io definito eccessivo, in uno dei tanti incontri culturali, cui partecipavamo entrambi, il suo anti-udinesismo: “Puoi pure dissentire, ma devi rispettare anche le opinioni che non condividi!”, mi disse con sguardo fermo, poi quasi volò via lungo il marciapiede con l’impermeabile svolazzante che pareva il tenente Colombo, pensai; similitudine appropriata, mi resi conto in seguito, in quanto anche lui sommesso e modesto, antiretorico, dissimulatore delle proprie grandi qualità di intelligenza critica e investigativa: documenti, leggi, fatti, prove a smascherare i falsi alibi dei politicanti.
    In seguito, da diverse occasionali conversazioni, seppi che era nato il 26 gennaio 1913 a Tolmezzo, da Rachele Diana di Maiaso (compresi così il motivo del suo profondo legame con questo paese e con la Cooperativa di Lavoro di Enemonzo, che aveva contribuito a fondare) e dal direttore didattico Sardo Marchetti, quello stesso, me la mostrò qualche anno dopo, che aveva steso nel 1907 la sua relazione su Benito Mussolini, maestro a Tolmezzo, ripresa con grande evidenza da Claudio Magris sul Corriere della sera del 27 febbraio 1993: “Il Sig. Benito Mussolini non fu un maestro senza una naturale disposizione all’arte educativa, ma senza metodo, mancante di quei mezzi e abilità che sono istromenti indispensabili all’educatore, senza la chiara visione di quanto deve impartire nella scuola, disorganico nel procedimento; il sig. Benito Mussolini (pur riconoscendogli il suo lavoro) ha ottenuto frutti scarsi. Avrebbe potuto raggiungere un profitto molto migliore se avesse dato alla scuola buona parte delle sue non comuni risorse intellettuali”. Appresi, inoltre, che era agronomo, laureato a Firenze e con una specializzazione in Agricoltura tropicale; ma soprattutto ch’era stato un combattente nella lotta di Liberazione dalla dominazione nazifascita e caucasica: dopo aver contribuito a creare una rete resistenziale in Carnia, il coordinamento dei CLN di vallata, il comando unificato delle 5 brigate Osoppo-Garibaldi operanti in Carnia, del quale divenne Commissario unico, era stato nel 1944 tra i padri costituenti ad Ampezzo della Giunta Civile di Governo della Zona Libera della Carnia. Così lo ricorda nel giugno di quell’anno Tiziano Dalla Marta nel suo libro autobiografico Il volo del rondone: “Trentenne, bello nella divisa kaki, il fazzoletto verde intorno al collo. Con voce quasi musicale, gli occhi chiari che guardavano lontano come per trovare l’ispirazione al suo argomentare, mi parla di giustizia sociale e di libertà, di democrazia e di autogoverno per un migliore avvenire della Carnia. Non accenna alla violenza che sta disintegrando il mondo, ha la serena determinazione di chi già si prodiga nell’opera di ricostruzione”.
    Pur avendo sperimentato di persona il diffuso atteggiamento antipartigiano, non mi pareva che questo suo passato potesse pesare a tal punto su di lui e determinarne come un isolamento, pur tra formali attestati di stima. C’era, infatti, anche qualcos’altro: lui, azionista e poi repubblicano, nel dopoguerra si era avvicinato agli esponenti di Unità popolare ed era “in combutta” coi membri della Giunta di sinistra del sindaco Pesce: i moderati lo guardavano con sospetto, mentre la Questura lo qualificava come “pericoloso in zona di confine, sospetto di intelligenza con Tito”; di fatto, venne allontanato dal Friuli anche per aver aggredito verbalmente il comiziante on. Tiziano Tessitori, che aveva definito gli esponenti di Unità popolare” quelli delle mantenute”; l’esilio politico dura dal 1953 – Savona, Treviso – fino al 1964, quando può tornare in Regione, ma senza poter mai rivestire la carica , che gli spettava di diritto, per aver superato gli esami di Ispettore Capo per merito distinto; infatti, quando vengono nominati i Capi dell’Ispettorato Provinciale di Udine e del Servizio Agrario Autonomo della montagna, Romano viene escluso.
    Mai, comunque, una parola di vittimismo e di rancore da parte sua; rabbia certo, indignazione, ma niente odio, fedele, se pur a denti stretti, fino in fondo ai suoi ideali di fratellanza universale; ma i fatti sì, perché si ricordasse la cattiveria del potere, quando, per spirito di indipendenza e di libertà, non ci si sottomette ad esso. Fatti, storia, individuale e collettiva; ma, da antieroe, non ha mai voluto porsi come saccente maestro: “Vedi – mi diceva -, io ti dico quello che ho fatto, non so se bene o male. Tu scegli e utilizza quello che ritieni valido”: responsabilizzava l’interlocutore, lo costringeva a riflettere, a valutare, a formarsi un giudizio personale e autonomo: maieutico, socratico nel suo sapere di non sapere, ma fermo nei propri ideali (europeista ante litteram diede al figlio il nome di:Euro), nelle proprie convinzioni e nell’ interminato amore per la sua terra.
    A guerra appena finita, il 19 maggio 1945 vede la luce ad opera sua il settimanale Carnia, la cui direzione dopo il numero 13 deve abbandonare, per motivi di lavoro: doveva pensare alla famiglia, sostenuta fino allora soprattutto dal lavoro della moglie Lida Benardelli, che aveva sposato nel 1941. Sotto lo pseudonimo di Cino da Monte rilancia, memore delle esperienze del primo Novecento e della Zona Libera, i temi del cooperativismo e la necessità di un organo di autogoverno e autodeterminazione della Carnia (sarà affidato a lui il compito di studiare lo statuto della Magnifica Comunità Cadorina e di preparare una bozza per quella che nel 1947 sarà la Comunità Carnica; bozza bocciata, perché troppo ‘autonomista’): “La Carnia è una piccola regione: la lingua, la razza, il sentimento, le consuetudini dei suoi figli, i problemi di carattere industriale, commerciale, agricolo, pastorale, identici o quasi in ciascuna delle valli, ne fanno un’unità distinta dal Friuli non scindibile in parti più piccole. I problemi della Carnia in Friuli son poco sentiti perché non sono gli stessi; inoltre Udine è troppo lontana anche in chilometri da tali problemi.”
    Cosa ha rappresentato per me l’incontro con Romano? E’ stato, nella oscura selva sociale carnica, una guida come Virgilio per Dante, come ho abbozzato in alcuni versi a lui dedicati, mai compiuti, nel 1995: “Hai preso per mano e guidato/ nei sentieri della storia/ un incompiuto, istinto di vita/ nella ragnatela della morte/ dell’anima./ Perché camminare?/ chiedeva il rinunciatario. So/ già dove mi porti, in un mondo/ di morti. Non sono tutti tarantole/ gli uomini, rispondevi antico,/ e con la mano premurosa/ levavi/ le ragnatele dagli orecchi. / Ora senti, se pur confusamente,/ brusio chiacchiere voci pianti/ strida lamenti sussurri d’amore/ godimenti: libera i rumori/ che hai dentro e scopri la tua voce./ L’afasíco balbettava/ fin che modulava il suo nome,/ odiandolo. Panoramico guardati,/ distante da te come da giovane,/ quand’eri più forte del tuo dolore…”
    Ne scrivo al passato, perché inevitabilmente un’amicizia che dura da oltre cinque lustri è intrecciata di ricordi, ma Romano è ben presente nella sua nobile e assorta figura, sempre combattivo, curioso e acuminato lettore di giornali e libri e della realtà, vicina e lontana, che ci circonda. Discutemmo un giorno del romanzo di Volponi Le mosche del capitale ed ecco che, pochi giorni dopo, arrivò con il libro del 1952 di Adriano Olivetti, Società, Stato, Comunità, per confermare la sua sintonia d’idee con lo scrittore urbinate, che si era formato proprio a Ivrea: un ideale di progresso sociale, fondato sulla conciliazione tra capitalismo sociale e socialismo liberale, che era poi, con tutte le contraddizioni, quello che aveva determinato il suo avvicinamento, tramite Fermo Solari, al Partito d’Azione, a Giustizia e Libertà.
    Un altro giorno lo vedo molto abbattuto: l’attuale Giunta regionale ha distrutto le Comunità Montane, figlie della Comunità Carnica: indignato mi guarda e come è solito, quando è in questo stato di tensione, col collo incavato nelle spalle e il mento sul petto, esplode in una furente condanna e riprende amaramente ad enumerare le spoliazioni subite dalla Carnia e dalla montagna friulana, ricordando, tra l’altro, il convegno che, col supporto del periodico Macchie, avevamo organizzato insieme a Tolmezzo nel giugno 1981 sul tema: Una proposta di sviluppo e di autonomia per la Zona Alpina (istituzione del Circondario come dall’art. 129 della Costituzione): anche i comuni fallimenti ci hanno uniti.
    Pochi anni fa mi consegnò un suo manoscritto: I due scogli morali di Caio Gracco, sorta di psicodramma con bellissimi passaggi descrittivi: Caio Gracco, sul punto di morire, è lo specchio, sereno e stoico del suo scacco: il tribuno della plebe sconfitto dal corrotto Senato-politicante e dalla voracità dei Cavalieri-faccendieri, ma anche da una plebe non cresciuta civilmente e culturalmente, nonostante tutti gli sforzi, per educarla e trasformarla da anonima ‘gente’ in cittadini. Pensavo, appunto per questo suo contenuto autobiografico, di pubblicarlo ora, così come, in occasione dei suoi ottant’anni, avevo pubblicato il suo scritto visionario e onirico-allucinato, L’Ors di Pani, anch’esso ricordato nell’articolo citato di Magris, documento intenso di una esperienza biografica fondamentale: la dolorosa e sofferta conquista della ‘maturità’ – proprio in Pani aveva attrezzato un primo rifugio di armi e viveri per la Resistenza.
    Invero, Romano, personalità complessa e sfaccettata, difficile da etichettare o da fissare in un’immagine statica, è (è stato) soprattutto un intellettuale non teoretico, ma pragmatico; un intellettuale alla Vittorini, che non ha “suonato il piffero” per nessun dogmatismo; o, se si vuole, come quello delineato da Norberto Bobbio in Politica e cultura del 1955, indipendente nel giudizio, servitore della verità, coscienza critica della società civile in rapporto dialettico con il ceto politico: quanto basta per essere guardato con diffidenza un po’ da tutti: il prezzo della libertà.
    Conoscitore di scienza e acuto lettore di opere letterarie (è sua la definizione di Siro Angeli come “scienziato del metro e dell’anima”), le nostre conversazioni spesso si allontanavano dalle delusioni della storia sulle orme di Leopardi, verso l’infinito, verso la libertà di mondi possibili, che continuano a vivere dentro Romano: “Solo attraverso l’istruzione di livello superiore e attraverso la cultura la Carnia potrà superare i suoi ritardi sociali ed uscire dalla marginalità economica”. Coerente fino in fondo con questa sua convinzione ha promosso con altri la creazione in collaborazione con l’Università di Trieste del Centro Botanico sul monte Pura ad Ampezzo; si è battuto per l’istituzione a Tolmezzo del Centro Plurilinguistico Internazionale (poi trasferito a Udine anche per l’insipienza dei carnici); è stato tra i fondatori del Coordinamento dei Circoli Culturali della Carnia e, fino a poco tempo fa, per quasi un decennio, ha insegnato all’Università della Terza Età.
    A questo punto dovrei ricominciare da capo e scrivere della moglie Lida, senza la cristiana vicinanza e ‘sopportazione’ della quale non avrebbe potuto vivere fedele ai propri ideali e valori, ed essere l’uomo ch’è stato.

  3. Ho visto solo ora questi commenti ,cercando altro. Attenzione che Giovanni De Mattia, Lupo, non passò mai alla Garibaldi e rfestò sempre osovano, ma divenne poi, nel dopoguerra,comunista.

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