Carnia: Siro Angeli e la sceneggiatura del film “Maria Zef”

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di Ermes Dorigo.

Angeli, carnico se pur migrante e lontano dal Friuli da tanto tempo, al momento di mettere mano al testo della Drigo non ha potuto non tener conto della sua appartenenza al contesto situazionale della vicenda narrata e della nuova coscienza sulla propria identità etnico-linguistica maturata in questi anni in Friuli. Davanti a sé Angeli aveva come unico antecedente intertestuale il film Gli Ultimi di Turoldo-Pandolfi (1962), che narrava la storia di una famiglia della pianura friulana negli anni trenta dopo la grande crisi – storia familiare che diveniva storia di un paese, d’una regione+, come notava lo stesso Turoldo.

Nella sceneggiatura, costruita in 88 scene, la vicenda si regge su un parallelismo chiastico, tra Maria e Barbe Zef: da soggetto paziente a soggetto agente, lei; da soggetto agente a soggetto paziente, lui. Già questo ci aiuta a comprendere come la vicenda sia costruita su opposizioni binarie non statiche ma che si dialettizzano orizzontalmente e verticalmente. L’opposizione fondamentale è quella vecchio/nuovo, che evidenzia in superficie la struttura profonda che regge la narrazione, assenza di storia/storia tra le due, a un livello mediano, si pone l’opposizione continuità/rottura storica.

A chiarire la complessità e l’intreccio di tali opposizioni, si può osservare che nipote e zio, divisi dall’opposizione nuovo/vecchio, sono uniti, in relazione alla restante società montanara, nella opposizione tra loro indigenza/benessere degli altri e in quella di isolamento/socialità; e che Barbe Zef è diviso da compare Guerrino (che simboleggia anche il presente) dalla opposizione nullatenente/benestante, ma è unito a lui dal fatto di rappresentare entrambi il potere patriarcale sulle donne e i giovani, potere che divide Barbe Zef dalla nipote.

Verso l’epilogo della storia (scena 87) Barbe Zef, inquadrato plasticamente in piano americano  in una scena tipicamente teatrale, mormora a se stesso, nell’unico suo monologo: Cijâr il miò Zef, fì di to pâri (“Caro il mio Giuseppe, figlio di tuo padre”): frase icastica che esprime l’impotenza del vecchio a modificare la propria storia, la sua resa al destino. E continua, rivolto allo spettatore: Ce ch’al è stât l’è stât. Ognun al sa di sé. Bisugna provâ a essi dentri di ce ch’a nus sucêt… I faz a no son maî come ca saméin a chei âltris (“Quello che è stato è stato. Ognuno sa di se stesso. Bisogna provare a essere dentro a ciò che accade. I fatti non sono mai come sembrano agli altri”).

Tale battuta brechtiana (Pensate / quando parlate delle nostre debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati. / Ma voi, quando sarà venuta l’ora, / che dell’uomo un aiuto sia l’uomo / pensate a noi / con indulgenza+, A coloro che verranno) ha la funzione di illuminare retrospettivamente tutta la vicenda e di modificare il significato stesso dello stupro: atto necessario, se pur doloroso, per impedire a Maria di naufragare nel quotidiano e tra le maglie del destino, accompagnato dalla consapevole accettazione della necessità della propria fine tragica, per interrompere la catena che perpetuava tristi sorti di padre in figlio, di generazione in generazione.

La morte di Barbe Zef non è solo un omicidio, ma anche il suicidio di un eroe sacrificale che si ribella a quella società che l’ha ridotto in quello stato.

Cos’è infatti Barbe Zef se non la vittima del presente? Egli è un povero patriarca dimidiato: senza casa, senza affetti, senza roba, senza ruolo sociale, spogliato di quelle marche simboliche che, assieme alla cooperazione e all’uso collettivo delle proprietà comunali, connotano la società in cui vive, ai primi del Novecento; prima della integrazione di tale economia in quella capitalistica, che ha marginalizzato antiche professioni (come la sua, il carbonaio) e ha provocato la concentrazione fondiaria e del potere nella società.

Alla realtà che simboleggia Barbe Zef si sono sostituiti la nudità e l`estraneità del Bosco Tagliato, segno della rapina privata sulle proprietà collettive, e Compar Guerrino, arricchitosi con l’usura, un ch’al à deventât sior suciànt il sanc a la pora int… J’ soi jò ch’j ai bisugna di lui. Eco ce ch’al ûl dî essi pôrs (“uno cbe si è arricchito succhiando il sangue alla povera gente… Sono io che ho bisogno di lui. Ecco cosa vuol dire essere poveri”).

Questi frammenti di coscienza gli fanno rifiutare lo spregevole ruolo di ruffiano, di mediatore al matrimonio tra Maria e Compar Guerrino, e lo portano allo stupro, come atto supremo di liberazione da un giogo, ma anche come espressione di un disperato desiderio di possesso da parte di chi non ha mai posseduto nulla – una pulsione profonda, che solo l’alcool, la grappa, riesce a liberare, come in un sogno trasgressivo che si rimuove appena svegli. Infatti, dopo la violenza, al risveglio, si meraviglia dell’atteggiamento della nipote e chiede sbalordito: Ce èsal sucedût? J’ai durmît (“Cos’è accaduto? Io ho dormito”).
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E quando rompe il silenzio e risveglia bruscamente Maria dal torpore in cui era caduta, con un brusco Ce fastu lì?, Barbe Zef inizia la sua eclissi di soggetto agente e emerge Maria, fino a quel momento soggetto paziente di una storia subita.

Maria è una adolescente, in quella fase psicologica tipicamente di frontiera, sospesa tra vita e storia, illusione e realtà.

Per comprendere meglio la sua evoluzione, ritengo opportuna una visualizzazione dei rapporti che subisce:

 

Catine–Maria—Rosute

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Barbe Zef—Pièri–Compar Guerrino

                       

 

Mentre la madre Catine rappresenta il peso della storia divenuta destino come per Barbe Zef, la sorella piccola Rosute simboleggia il vitalismo, il desiderio di vita, i bisogni profondi (affettività, autenticità, socialità) che spezzano le convenzioni sociali e si oppongono alla riduzione della vita alla storia e dunque alla trasformazione delle leggi di questa in fatalità.

Maria è agita da una fitta trama di rapporti (i vettori dello schema indicano le pressioni esercitate su di lei): nella prima parte della vicenda vede la realtà a squarci, una realtà però subito velata e offuscata dalla speranza e dalla illusione adolescenziali, dalla convinzione fatalistica della possibilità del cambiamento pur nella concreta esperienza del contrario. Maria non è un personaggio scisso come lo zio, ma un soggetto disseminato che si riconosce in tutto e in niente, cui coscienza esperienza sogno illusione, alternandosi e intersecandosi, conferiscono una consistenza psicologica larvale, tipica della adolescenza, che vive sospesa tra emozione e amore per la vita e oppressione delle convenzioni sociali.

La sua evoluzione in senso antifatalistico è determinata soprattutto da Pièri, il giovane figlio di benestanti innamorato di lei, che decidendo – per libera scelta, non per costrizione – di emigrare rifiuta a un tempo quella struttura sociale e l’assenza di storia di quell’ambiente, e apre per Maria, col suo atto, uno spiraglio su un mondo diverso, indefinito, ma nel quale pare esserci speranza.

Questo incontro, che incrina il processo di identificazione di Maria con la madre, insieme al vitalismo di Rosute, il suo profondo rimosso, innescano un meccanismo istintivo di rifiuto del proprio ruolo, rifiuto innanzi tutto psicologico, tra norma sociale e pulsioni. La disseminazione tra vita e storia si conclude con la lenta maturazione di una nuova identità e soggettività, quando Barbe Zef compie la violenza.

Dopo, Maria matura gradualmente e organicamente la coscienza della realtà attraverso gli altri; prima, in successione: il vero volto dello zio che, nel ruolo assegnatogli da quel presente, non può non essere violento (sc. 69); la minaccia sempre più incombente della perdita di Rosute (sc. 74); la solitudine e il vuoto della natura per chi non ha vita sociale (sc. 77); l’angoscia di identificarsi con la madre e nel suo destino, attraverso le parole della guaritrice (sc. 80); poi, un attimo di esitazione e di paura, espressi nel suo soliloquio col torrente, un cupio dissolvi, un tentativo di riacquistare l’informità adolescenziale per fuggire quel carico di coscienza sempre più pesante: Jo j’ vorés spari.. Disfami in chesta aga como la nèif (*Vorrei sparire… Dissolvermi in quest’acqua come la neve+, sc. 80); infine, nella sc. 85 sottolineata dal furioso latrare del cane Petòti, tutta la realtà con la sua razionalità intrinseca si presenta istantaneamente nella coscienza dei protagonisti: Pièri, Rosute, Catine, Compar Guerrino, loro due.

Questa presa di coscienza (germinata da un pensare concreto, induttivo, quasi corporeo) lascia zio e nipote attoniti, ma consapevoli della necessità che l’atto si compia per aprire la via alla speranza (perché solo di speranza si tratta, rimanendo Maria nella frattura tra vecchia e nuova storia): Maria, vittima individuale, compie un delitto per modificare la storia collettiva, per aprire la strada a una storia diversa, con l’amara consapevolezza che il nuovo dovrà lottare ancora e sempre e confrontarsi con il vecchio (in fondo, Rosute è figlia di Barbe Zef, della violenza da lui esercitata su Catine).

L’accetta che si abbatte sul capo di Barbe Zef recide il Fato, il Destino, ma dalla ferita sgorgano gli interrogativi sulla natura umana, sulla responsabilità dell’uomo nella storia e nella società, sul nesso tra passato e futuro, sulla pericolosità della ragione umana, quando essa maschera le cose, sul dolore insito nella conoscenza.