Friuli: carceri sovraffollate, a Udine e Tolmezzo detenuti al doppio della capienza

Sono 865 (30 donne e 835 uomini) i detenuti chiusi nei cinque istituti del Friuli Venezia Giulia, a fronte di una capienza di 548 persone (35+513), con un sovraffollamento di 317 unità. Si tratta di una popolazione carceraria al quintultimo posto tra le regioni in Itaila, come riporta il rapporto mensile del ministero della Giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31 gennaio scorso. Degli 865 reclusi, i cittadini stranieri sono 531 (16+515) di cui 333 (7+326) definitivi. Dal punto di vista della nazionalità, i cittadini del Marocco sono in più numerosi (84), seguiti da quelli della Tunisia (82); nella suddivisione per aree geografiche, sono 123 i reclusi di Paesi Ue; 235 quelli provenienti dall’Africa; 27 dall’Asia e 23 dalle Americhe. Specificamente per istituti, Tolmezzo è il carcere dove risiede il maggior numero di detenuti (283, solo uomini, su una capienza di 148); seguono Trieste con 249 (30+219) su una capienza di 155 (25+130), Udine con 223 (solo uomini) su una capienza di 112 (10+102), Pordenone (70 solo uomini su una capienza di 53) e Gorizia (40 solo uomini su una capienza di 80).

Una risposta a “Friuli: carceri sovraffollate, a Udine e Tolmezzo detenuti al doppio della capienza”

  1. Aggiornamento del 16/02/2012

    Sarebbe bene che il carcere «producesse libertà»

    a cura ddella redazione de «La voce del silenzio»

    La riflessione della nostra redazione ristretta nella Casa Circondariale di Udine si è ultimamente concentrata sulla vivibilità delle strutture penitenziarie alla luce ovviamente del sovraffollamento che le caratterizza e sulle possibilità di espiare con modalità organizzative diverse la pena detentiva, ovvero creare un clima in base al quale le tensioni presenti negli istituti tendenzialmente vanno a ridursi e a smorzarsi. Partendo dalla premessa che il ricorso al carcere dovrebbe essere considerato come “extrema ratio”, sarebbe sufficiente, sovraffollamento permettendo, applicare l’ordinamento e il regolamento penitenziario come ha sottolineato la ex-direttrice del carcere di Bollate Lucia Castellano nel suo libro “Diritti e castighi Storie di umanità cancellata in carcere”: «Il carcere che funziona non è quello che priva della libertà, ma che produce libertà. E per produrre la definitiva libertà dei suoi abitanti deve rivoluzionare se stesso. Deve trasformarsi in un luogo in cui non c’è bisogno di esercitare il potere, già esercitato dal muro di cinta. Deve diventare un luogo in cui si organizza un servizio. Una grande utopia, forse…». Secondo il nostro punto di vista “produrre libertà” significa responsabilizzare la persona detenuta rimodulando le attualità modalità di espiazione della pena. Sconfiggere innanzitutto l’ozio e l’inattività, quindi ridurre la permanenza delle persone in cella; favorire una maggiore autonomia di movimento all’interno degli istituti sperimentando sezioni a “regime aperto” o a “custodia attenuata”; garantire le cure mediche, per cui la persona detenuta è considerata a tutti gli effetti un paziente nel momento del malessere psico-fisico; promuovere relazioni non autoritarie tra la polizia penitenziaria e la popolazione detenuta e tra la popolazione detenuta stessa (perché il corpo della polizia penitenziaria non potrebbe essere trasformato in un corpo prettamente civile con una preparazione maggiormente psico-sociale non dimenticando che è già previsto il coinvolgimento del personale di custodia al trattamento intramurario con l’area educativa). Mentre si rifletteva su questi aspetti siamo venuti a conoscenza della circolare del’ex direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del novembre scorso, “Modalità di esecuzione della pena. Un nuovo modello che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione”, che in modo più approfondito e articolato richiama le istanze precedentemente richiamate per rendere più vivibili, nonostante il sovraffollamento, gli istituti penitenziari del nostro Paese. Le finalità della circolare sono quelle in definitiva di sperimentare sezioni con “un regime aperto” dove alle persone detenute, tramite l’organizzazione di precise attività (lavorative, formative, culturali e sportive), si riduce il tempo di restrizione in cella allentando le tensioni interne tramite una quotidianità che stimola un impegno e una responsabilizzazione della persona detenuta. A questo punto è il muro di cinta il solo limite invalicabile. Oggi questa prospettiva sembra quasi impossibile dato che ci dovrebbero essere strutture adeguate, personale educativo sufficiente, risorse economiche tangibili, eppure l’orizzonte dovrebbe essere questo alla luce anche di quanto costa giornalmente una persona detenuta – 113 euro – un costo non indifferente per la società e che dovrebbe favorire percorsi di reinserimento sociale e non elevati tassi di recidiva. Come sottolinea Lucia Castellano questa sarebbe veramente una rivoluzione e la stessa pena detentiva uscirebbe dalla concezione esclusivamente retributiva. Non si tratta di essere “buonisti” come spesso sentiamo dire, ma di riprendere il dettato costituzionale e in particolare il super citato articolo 27 che tra le righe ci fa capire che una persona detenuta, sì perde la libertà, ma non deve perdere la propria dignità e solo attraverso una “libertà responsabile”, anche in carcere, si possono avviare percorsi di rivisitazione del proprio vissuto in una logica di tipo riparativo verso la società e le vittime dei reati.

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