Friuli: mafie a nord-est, ne parla il nuovo libro di Armando Spataro

di LUANA DE FRANCISCO

Sorride al pensiero che ci sia chi si meraviglia di sentire che la ’ndrangheta ha messo radici al Nord e non esclude, anzi, che quelle stesse radici possano essere arrivate fino alle regioni del Nord-Est. «Perché le organizzazioni malavitose – dice – sanno selezionare bene le zone ricche nelle quali operare». E perché questa altro non è che «la storia aggiornata delle mafie che cominciarono a risalire la Penisola agli inizi degli anni ’50». Ben venga, allora, chi, come Roberto Saviano, ha il coraggio e la voglia di parlare di mafia e di corruzione. E spazio al giornalismo d’inchiesta e ai magistrati capaci di andare avanti «a ogni costo» e in presenza di «qualunque tipo d’indagato, senza distinzione di censo, potere e provenienza».<br />
Di esperienza per parlare, Armando Spataro ne ha da vendere. O, per meglio dire, da scriverne. Come ha già fatto tante volte, dal 1975 a oggi, in parallelo con la sua attività di magistrato (dal 2003 è procuratore aggiunto a Milano), e come è tornato a fare di recente, con Ne valeva la pena. Storie di terrorismo e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa (editori Laterza), il suo primo vero libro.

 

Dottore, partiamo dalla stretta attualità. Anche perché non passa giorno senza che si apra un nuovo fronte di polemiche. Tra le tante, quella su Saviano che, di punto in bianco, si mette a fantasticare di liaison tra la ’ndrangheta e i politici del Nord.
«Posso tranquillamente affermare che ciò che mi meraviglia è che qualcuno si meravigli del radicamento della ’ndrangheta al Nord. Perché tutto quello che emerge oggi è il logico sviluppo delle indagini avviate negli anni ’90. Ben ricordo ciò che ci venne raccontato da molti collaboratori: era l’anno del primo festival di Sanremo, il 1951, quando i boss cominciarono a fare trasferire al Nord i loro familiari, seguiti dagli amici e, poi ancora, dagli amici degli amici. In Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria ed Emilia Romagna. Si venne cosí a riprodurre un tessuto di rapporti e poteri simile a quello che c’era in Calabria».
E il Friuli? È verosimile pensare che qualche propaggine di ’ndrangheta sia arrivata fino a qua, terra di confine?
«È possibile. Pur non avendo una diretta esperienza della criminalità esistente in questo territorio, penso che la ’ndrangheta possa avere messo radici anche nel Nord-Est, per una ragione molto semplice: è un’organizzazione che sa selezionare bene le zone ricche, dalle quali trarre proventi illegali».
Eppure, le “rivelazioni” di Saviano gli hanno scatenato addosso il finimondo.
«Ma quanto ha detto serve a far crescere il Paese. Le inchieste degli anni ’90 ci hanno consegnato una lunga storia di organizzazioni criminali partite dal contrabbando del bergamotto della Costa Azzurra, passate gradualmente alle rapine, alle estorsioni e all’usura e approdate alla stagione dei sequestri di persona, prima di dedicarsi al traffico degli stupefacenti. Il tutto, condito da omicidi, alleanze tra gruppi criminali mafiosi, alterazione dell’economia legale e una crescente collusione con alcuni personaggi politici operanti per lo piú nell’hinterland milanese o in piccoli centri. Lo scarto da allora a oggi sta nell’allargamento degli interessi criminali ad altri settori, quali l’edilizia e le società finanziarie. La connessione con la mafia d’origine, tuttavia, resta saldissima: sarebbe un errore considerare i gruppi del Nord succursali marginali del Sud».
Torniamo ai “balletti” dell’attualità. Sventolando ancora una volta il tema della sicurezza. Ma secondo lei, in Italia, c’è davvero cosí tanto bisogno di protezione?
«Premesso che la sicurezza è un diritto dei cittadini certamente degno della massima attenzione, va detto che, negli ultimi anni, purtroppo, il tema è stato palesemente strumentalizzato. Basti pensare alla legislazione in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare e ai tanti cosiddetti pacchetti-sicurezza approvati dal 2008 a oggi. Di una cosa sono certo: l’attenzione alla sicurezza non può giustificare politiche di respingimento o emarginazione».
In 34 anni di attività, le sue indagini hanno spaziato dalle Brigate rosse e Prima Linea, alle mafie trapiantate al Nord, al terrorismo internazionale. Com’è cambiato quel tipo di criminalità da allora a oggi?
«Credo che quel terrorismo non esista piú. È vero, ci sono stati gli omicidi D’Antona e Biagi e gli arresti di pochi anni fa a Milano, Torino e Padova. Ma è tutto molto diverso dal radicamento degli “anni di piombo”. Come disse Pertini, «abbiamo l’orgoglio di avere sconfitto quel terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi». Oggi, quella follia che pure era alimentata da ragioni di disagio sociale non fa piú presa. E se quella stagione è finita, lo si deve anche al fatto che disponiamo di una polizia giudiziaria e di una magistratura che hanno saputo coniugare professionalità e rispetto pieno delle legge».
In questo tourbillon, un ruolo determinante è giocato dalla stampa. Vittime o carnefici del sistema?
«Credo nel giornalismo d’inchiesta, alla maniera americana, che ho avuto modo di conoscere da vicino lavorando al caso Abu Omar. Ammiro chi lo pratica, perché richiede una verifica scrupolosa e incrociata delle fonti. Anche in Italia vi sono esempi virtuosi, ma purtroppo vi è anche chi diffonde informazioni teleguidate, per non parlare delle falsità e delle offese rivolte ai magistrati»
Qual è il suo messaggio a chi, oggi, intraprende la strada della magistratura?
«Innanzitutto, che non esistono eroi né vittime sacrificali. La stella polare di un magistrato deve essere semplicemente l’ossequio al proprio dovere. Ciò che va esaltato è anzi la normalità del nostro lavoro. Tanto che è proprio il “caso” che spesso ci porta a occuparci di vicende delicate e anche rischiose. Ma guai a sentirsi per questo moralizzatori della società».
E lei, con tutto quello che ha visto e fatto, in cosa crede?
«Nel titolo del mio libro ho volutamente omesso il punto interrogativo. A costo di sembrare retorico, ritengo che il dovere del magistrato sia quello di andare avanti e di credere nel proprio lavoro, qualunque sia la qualità soggettiva dell’indagato e nonostante il pesante tributo di sangue – 24 magistrati uccisi – che abbiamo alle spalle e la valanga di insulti che ci vengono rovesciati addosso. Ma tocca alle più alte istituzioni difendere la credibilità della giurisdizione, ancor più che l’onore ferito dei singoli magistrati».