Tolmezzo: “Umanisti a Tolmezzo nel 1500” recensione di Roberto Pagan

Recensione di Roberto Pagan.

Sfogliamo questo bel volumone (Ermes Dorigo, Umanisti a Tolmezzo nel 1500, Andrea Moro Editore, Tolmezzo – Udine, 2014) senza lasciarci troppo intimidire dalla sua mole (pagine 460), rasserenati dalla grazia della figura che campeggia in copertina (la Madonna col bambino da un lacerto d’affresco quattrocentesco); un po’ stupiti dal titolo (quanto poteva essere ricca la cultura di una cittadina della Carnia che oggi conterà diecimila abitanti, allora forse mille?); rassicurati dal nome del curatore (che conosciamo come studioso assai affidabile); attratti infine dalle molte riproduzioni: facsimili di antichi frontespizi, eleganti incisioni araldiche, fotocopie di autografi originali. Aprendolo al primo capitolo – dopo l’introduzione generale – leggiamo la pagina 27, dalla Descrittione de la Cargna, del Co. Jacopo Valvasone di Maniaco: Questa Terra, quantunque sia di piccolo ambito è tutta allegra e ben fabbricata, al presente è la Capitale di tutta la Cargna, abitata da persone civili e di acuto intelletto, conforme a quell’aere sottile…, nella quale nuovamente sono state descritte 950 anime

 Non ci sono dubbi: la Terra di cui si parla è proprio Tolmezzo, cittadina “ridente”, come la definiscono ancora le guide (ed è pur curioso che l’antico autore insista sull’aggettivo allegra), capoluogo della Carnia, punto di raccolta del turismo: e quell’aria frizzante, (sottile la dice il testo) che viene giù dalla cerchia dei monti, si sente davvero; e volentieri accettiamo che, in conformità a quell’aria, siano tutti acuti gli intelletti del luogo. Tra cui vogliamo annoverare, tra i primi, il nostro dotto Ermes Dorigo. Ma prima di arrivare ai giorni nostri, ci sono ben tre piani temporali da ricuperare, a partire dalla Descrittione citata, che è del 1565, dedicata nientemeno che al Cardinale Borromeo (quello di Milano, che sarà fatto santo), e poi ripresa e ristampata nel 1866 e ri-dedicata da uno studioso di Udine, Giulio Andrea Pirona, a un amico Ambrogio Rizzi, dottore in medicina, nel dì delle sue nozze; e finalmente riprodotta nel nostro volume con le note di un copista ottocentesco.

Ecco: questo vagabondare nel tempo, questo gusto di rovistarvi dentro, è uno degli aspetti che più ci affascina della personalità di Dorigo: ingegno peraltro multiforme e versato in molti campi, e altresì singolarmente estroso. Un intellettuale, come si dice, a tutto tondo, quasi un asceta della cultura: un umanista raro dei nostri tempi. Chi scrive l’ha conosciuto ragazzo tra i banchi del Liceo Classico “Stellini” di Udine, prestigiosa istituzione, bisogna pur dire, se da esso è uscita, in cent’anni e più, tutta la crème della intellighenzia friulana. L’ha conosciuto sì, e poi perso di vista per lunghissimi anni, fino a ritrovarlo in tempi recenti, sulla carta stampata e per corrispondenza privata. Sempre lì dove è nato, a Tolmezzo, a custodire le proprie radici e a illustrarne la cultura. In realtà spaziando poi da un settore all’altro, e occupandosi di italianistica antica e moderna (notevoli soprattutto alcuni sui saggi recenti su Leopardi), pubblicando su numerose riviste italiane e straniere (tra cui la canadese Rivista di studi italiani), ideando, di suo, almeno due romanzi (ne conosciamo l’ultimo, Il finimento del paese, di scrittura assai raffinata), tenendosi in contatto con Eco, Magris, Corti, Leonetti, Porta, Petronio, e per lunghi anni in amicizia con lo scrittore Volponi. Si è infine occupato di didattica, come docente nei Laboratori di didattica, lingua e letteratura italiana presso l’Università di Udine. Ma contemporaneamente ha mostrato sempre interesse per le ricerche erudite, di tipo archivistico, non solo per il gusto di cimentarsi con le vecchie carte, ma anche nel benemerito tentativo di aprirle – grazie al lavoro di divulgazione e commento – a un pubblico più vasto, non esclusivamente specialistico. È avvenuto così per le ricerche da lui condotte sui carteggi tra Metastasio, poeta “cesareo” a Vienna, e i suoi corrispondenti del Friuli; come pure per Il progetto dei letterati d’Italia d’iscrivere le loro vite, da legare al nome del patrizio Giovanni Artico di Porcia, nell’ambito e nel clima dell’Arcadia settecentesca.

In questa direzione si colloca anche il presente volume, che per la prima volta riunendo insieme una decina di opere, diversissime tra di loro per tono e soggetto, ma tutte riportabili ad autori tolmezzini del tardo Cinquecento, le rende disponibili, grazie a un cospicuo lavoro di commento e di traduzione là dove necessario, a una consultazione agevole e proficua. E ciò si dice non tanto per il valore letterario dei singoli testi, che può essere più o meno apprezzabile, quanto per un interesse storico e culturale in senso lato. Perché tali opere nel complesso non solo testimoniano dell’indubbio fervore intellettuale che all’epoca poteva fornire anche una città modesta e periferica rispetto ai grandi centri di cultura italiani, ma rappresentano di per sé uno spaccato interessante della varietà di umori e atteggiamenti che caratterizzano un’epoca di declinante umanesimo, capace tuttavia di reagire anche con vivacità alla stretta censoria e conformistica imposta dal Concilio tridentino.

Ma elenchiamole intanto, queste opere, in base all’indice del nostro libro. Dopo la breve, già citata Descrittione della Cargna, posta in apertura quasi a introdurci al contesto ambientale attraverso la voce di un contemporaneo, seguono: 1. Un Canzoniere petrarchesco del XVI sec., già attribuito a Giuseppe Cillenio, ma che il curatore assegna per ragioni filologiche a un Anonimo da Tulmegio; 2. Un poema encomiastico in latino, Austriados, libri quattuor del 1559, di Rocco Boni; 3. Un poema in distici elegiaci di Anteo Cillenio, De peste Italiam vexante, 1577 (da notare qui la presenza di parecchi rappresentanti della stessa famiglia, i Cillenio, attraverso più generazioni successive); 4. Nicolò Cillenio senior, Psyches – Rapsodiae duae, post 1577; 5. Carmina, di Nicolò Cillenio junior; 6. Varie orazioni più una raccolta di Carmina di Raffaele Cillenio, figlio di Nicolò, giurista e celebrato maestro di latino e greco; 7. Ancora un’opera sulla peste, ma in volgare: Trattato della peste e delle petecchie di Giuseppe Daciano, 1576; 8. Fabio Quintiliano Ermacora, De antiquitatibus Carneae, 1584, un’opera di storia locale; 9. Francesco Janis, Viaggio in Spagna del 1519-20.

Come si vede, la varietà delle opere è il primo dato saliente. E su di ognuna si potrebbe spigolare all’infinito. Perché, davvero, il volume si rivela attraverso i suoi personaggi e le sue molte sfaccettature una vera miniera di notizie e spunti di riflessione.

Certo del Canzoniere petrarchesco dell’Anonimo tolmezzino avremmo poco da dire. Oltre a riconoscere all’autore un certo mestiere nella versificazione, c’è solo da persuaderci, una volta di più, come una moda letteraria diffusasi nelle corti italiane dopo l’esempio del Bembo avesse preso piede durevolmente e con grande omogeneità anche nei centri minori, dove – annota il commentatore – “contribuisce a cementare la nobiltà e il potere locale”. E non dimentichiamo la vicinanza, nel caso di Tolmezzo, con la grande fucina umanistica di Venezia, ora che la Serenissima, fin dal 1520, ha esteso il suo dominio a tutto il Friuli. Trattandosi quasi di un elegante gioco di società, non cercheremo certo invenzioni originali: ché anzi tale attività scrittoria, al di là delle implicazioni stilistiche, “non richiede che l’imitazione e la ripetizione”. Del resto, “chi scrive molte volte non ha nemmeno letto Petrarca, ma solo le Rime del Bembo”. A questo punto può essere solo curiosità localistica se l’ambientazione di questo Canzoniere sia effettivamente riportabile a Tolmezzo e che da Tolmezzo venga la donna cantata: il nome Fiammetta è evidentemente tutto letterario, generico evocativo di passione amorosa.

A Venezia ci riporta ancora, o piuttosto alle arti diplomatiche del suo Senato, il poema encomiastico in quattro libri (Austriados libri quattuor) celebrativo dell’Austria e dell’Imperatore Ferdinando I e di suo figlio Massimiliano. Le lodi sperticate che qui se ne fanno chiariscono subito il senso della sua destinazione, tanto da indurci a credere che l’opera sia stata “commissionata” dai reggitori della Serenissima a un “suddito letterato di frontiera” quale l’oscuro Rocco Boni, con lo scopo, appunto, di “rafforzare i legami di pace e di amicizia tra Venezia e Austria”, in realtà non sempre facilissimi. A parte sporadiche note di colore ad evocare alcune località friulane (con le torri di Gemona e le alte mura di Tomezzo o le rovine dell’antico Foro di Giulio, e cioè Zuglio) qui conterà di più la glorificazione della visita imperiale nella Città Adriatica: Questa lo accolse con fasto regale… e molto prodiga esternò…manifestazioni di letizia…il Cesare si compiacque e legò a sé i Veneziani in un’alleanza perpetua.

Altre due opere, diverse nella forma, vanno collegate insieme nel segno del periodico flagello della peste: il poemetto in distici latini di Anteo Cillenio, De peste Italiam vexante, e il Trattato sulla peste e sulle petecchie del medico tolmezzino Giuseppe Daciano, in prosa volgare. Il tema era dolorosamente attuale. Apprendiamo infatti che “nel corso del 1500 ben tredici epidemie di peste, vaiolo e tifo petecchiale colpirono la regione”. Il poemetto rientra a buon diritto nel genere umanistico di componimenti didascalici in versi inaugurato con successo dal famoso Syphilis sive de morbo gallico del medico veronese Girolamo Fracastoro qualche anno prima; ma è anche profondamente segnato dal clima moralistico della Controriforma; sicché “per Anteo la peste diventa una grande metafora della punizione di Dio per la corruzione dei costumi”. Ma se il latino, oltre a essere strumento elegante era anche appannaggio esclusivo delle corporazioni dei dotti, il volgare di cui si servì Giuseppe Daciano fu appunto disapprovato dalla Chiesa e dalle gelose consorterie dei medici. Tuttavia la precisa volontà di fare opera di divulgazione è dall’autore espressamente sottolineata: Ho voluto pubblicarla in lingua volgare, acciò che da tutti sia intesa. Sembra quasi una degna anticipazione di quanto farà, in altro campo e certo con arte sopraffina, Galileo con il suo Dialogo dei massimi sistemi. E qui il curatore inserisce opportunamente anche un piccolo saggio di Nicola Corbelli, Peste e letteratura nei secoli, che suggestivamente ripercorre il tema in questione da Tucidide a Manzoni.

Ma torniamo alla famiglia Cillenio, che in questa rassegna fa davvero la parte del leone, con altri tre suoi rappresentanti. Di Nicolò Cillenio senior scorriamo le due Rapsodie in distici latini intitolate a Psyches: apparentemente un frivolo arabesco mitologico. In realtà si tratta di un’opera complessa, “metaforica, criptica e allusiva” con due facce contraddittorie: la prima mostra la nostalgia “per la libera ed eclettica cultura umanistica”; la seconda sembra una palinodia del già detto a significare il sottomettersi dell’autore ai severi dettami della Chiesa. Ma una accentuazione ironica di questi versi parrebbe negare quanto si dice. Di fatto si tratta di un’interessante vicenda di “resistenza” al clima oppressivo della controriforma, di cui più volte l’autore, già sospetto di eresia, aveva fatto le spese. Insomma, press’a poco, quello che nel secolo barocco si chiamerà la “dissimulazione onesta”. Anche qui, quasi in forma di appendice, un inserto ripercorre la favola di Amore e Psiche attraverso i tempi, chiarendone le varie interpretazioni allegoriche e filosofiche.

Ancora più noto e celebrato come latinista e grecista fu Raffaele Cillenio, figlio di Nicolò. Fin dalla giovinezza si dedica alla professione di insegnante in varie scuole del Friuli e del Veneto, soprattutto a Venezia e Vicenza. La sua produzione in prosa e in verso fu copiosissima. In occasione del conferimento della cattedra di latino e greco nella città di Udine, pronunciò poco prima della morte nel dicembre del 1594 una Oratio ad cives utinenses che fu considerata il vertice della sua arte oratoria.

Altro oratore facondissimo fu infine Francesco Janis, dottore in legge, spesso impiegato in negozi diplomatici di grande rilievo sia dalla Patria del Friuli che dalla Repubblica Serenissima. Dopo alterne vicende presso il Senato veneziano, imprigionato addirittura per sospetta cospirazione, fu infine riabilitato e inviato per conto di Venezia come mediatore in una controversa di interessi marinari con il giovanissimo Carlo I di Spagna, proprio al momento della sua investitura a Imperatore. Del viaggio in Spagna del 1519-20, passando però, un po’ da “turista”, per varie città d’Italia, Spagna e Provenza, egli lasciò un Diario, purtroppo perduto. Se ne conservano le tracce in un vivace compendio, godibilissimo di per sé soprattutto per la vivacità dell’idioma veneto, di mano del grande erudito Martin Snudo: tanto da far meno rimpiangere l’originale.

Abbiamo lasciato per ultima un’operetta più volte rimaneggiata nel tempo: il De antiquitatibus Carneae di Fabio Quintiliano Ermacora, che deriva da un codice travagliatissimo, di recente non più pubblicata. Se non altro per chiudere circolarmente il nostro discorso aperto con la Descrittione della Cargna. Ne riportiamo, quasi in dissolvenza, l’attacco maestoso da cui traspare l’orgoglio della stirpe: Universam regionem illam, quae inter Liquentiam f lumen, Tarvisium agrum terminans, et Adriaticum sinum, Istriam, Iapidiam, Alpesque Superiores, Italiam a Germania dividentes, continetur, Carnorum provinciam antiqui nominavere eiusque incolae Carni populi dicebantur; cuius metropolis fuit Aquileia civitas nobilissima, Romanorum colonia, circa quam C. Iulius Caesar, dum proconsul in Gallia bellum gerebat, tres legiones in hibernis collocare consueverat.

Sapesse ancora qualcuno ai giorni nostri maneggiare con tanto vigore la lingua dei padri                                                                                                                

 

  1. E’ stato mio insegnante di italiano e latino allo Stellini. Qualche anno fa ci siamo re-incontrati ed è nata una profonda e salda amicizia ( è scrittore e poeta, apprezzato dai maggiori critici italiani.

2 Risposte a “Tolmezzo: “Umanisti a Tolmezzo nel 1500” recensione di Roberto Pagan”

  1. Con molti auguri al carissimo Ermes e a tutta la Redazione
    Roberto Pagan

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