Udine: demolire l’Upim, e poi?

Diana Barillari
consiglio direttivo Italia Nostra

L’ipotesi che la demolizione del palazzo dell’Upim possa costituire l’occasione per realizzare un’architettura contemporanea avanzata da Italia Nostra ha origine dalla consapevolezza che la città e gli edifici che la compongono, al pari degli organismi viventi, evolvono, mutano, si trasformano seguendo logiche economiche, strutturali, sociali ma soprattutto culturali. È questo il cuore pulsante del dilemma che si porrà il giorno in cui le ruspe avranno finito di demolire un edificio che la città non ha mai amato, anzi è stato subito additato come esempio negativo di intervento in centro storico: gli udinesi non hanno mai apprezzato il palazzo Upim e ora che si presenta l’occasione intendono cancellarne la memoria e sostituirlo. Giustamente l’assessore Malisani prevede una divisione in scuole di pensiero, l’una orientata a ricostruire «com’era e dov’era» e l’altra favorevole a un intervento ex novo. Di cultura si tratta e non si creda che la prima posizione corrisponda a quella dei tradizionalisti e la seconda agli innovatori, si ridurrebbe la questione a una facile contrapposizione, che rischia di svilirne la complessità. È vero che anche oggi si ricorre a ricostruzioni filologiche di edifici non più esistenti, addirittura interi pezzi di città e questo si è fatto anche in passato quando, a esempio, si è deciso di ricostruire nel modo più fedele possibile Varsavia o Dresda, ma in quel caso si trattava di delicate questioni inerenti a identità collettive. Lo stesso parametro si può applicare alla Fenice di Venezia, risorta per l’ennesima volta dalle sue ceneri e basterebbe considerare il futuro dell’Aquila per capire come questo problema metterà alla prova non solo i cittadini ma anche l’intera nazione. Lo scempio della demolizione del cinema Eden di Provino Valle non è però frutto delle onde sismiche e neppure di eventi bellici, ma di ordinaria speculazione intrecciata alla micidiale reazione innescata da pastoie burocratiche, normative farraginose, supina applicazione di leggi e leggine. La relazione che Provino Valle era riuscito a stabilire in quello scorcio che si inserisce tra il Palazzo Municipale di Raimondo D’Aronco e la piazza dovuta al disegno di Giovanni da Udine era azzeccata sia per contiguità con il linguaggio espressivo del contesto ispirato al Rinascimento, al quale D’Aronco si era accostato con una variante moderna, sia anche per aver trovato le giuste proporzioni: pertanto la riproposizione ispirata al «com’era e dov’era» avrebbe una ragion d’essere, se non altro quella di poter contare su un precedente collaudato. Ma, riflettendo sulla soluzione offerta da Valle, non si può tacere che la stessa è figlia di una dimensione culturale che era orientata verso un linguaggio architettonico che sostanzialmente si rivolgeva agli ordini, da intendersi come rodato sistema espressivo, al quale la composizione faceva riferimento. E poi che senso avrebbe utilizzare la facciata ideata per un cinema applicandola a un edificio che avrebbe sicuramente un’altra destinazione d’uso e che fare nei riguardi dei materiali? Anche questi andrebbero ripristinati? All’epoca Provino Valle ideò un progetto che rispondeva alle logiche del suo tempo e ne era l’espressione, pertanto applicando il principio transitivo noi oggi dovremmo attenerci ai parametri contemporanei. Quando poi si considera l’intervento effettuato da Gino Valle in via Mercatovecchio – palazzo Talmone o Palazzo Rosso – allora prevale l’orientamento verso il nuovo, possibilmente della stessa qualità. Non c’è unanimità su questo edificio che ancora molti udinesi considerano troppo invasivo, ma è proprio la sua distanza (in termini di materiali a esempio) dal tessuto edilizio circostante e al contempo la capacità di dialogare con lo stesso a decretarne la riuscita. Gino Valle è l’ultimo interprete di quel palinsesto che è via Mercatovecchio, medievale se si considera la tipologia su lotto stretto e allungato, ma novecentesca quando si prendono in esame le facciate, ideate tra gli altri da Pietro Zanini, Ettore Gilberti, Cesare Miani: architetture distanti tra loro di secoli che riescono a coabitare creando un brano di città particolarmente piacevole oltre che di qualità. Se risulta pienamente condivisibile la scelta operata a Barcellona di ricostruire il padiglione di Mies van der Rohe in quanto si tratta di un’icona del Movimento Moderno, per quanto riguarda il cinema Eden ci troviamo di fronte a un edificio che è stato apprezzato unanimemente solo dopo la demolizione, mentre nel caso del padiglione sopraccitato soltanto la bibliografia richiederebbe pagine su pagine. Il paragone è improprio, ma serve a farci comprendere che il ragionamento di tipo “analogico” rischia di essere fuorviante, mentre l’analisi va condotta sul singolo caso, dato che ogni edificio interagisce con un contesto specifico, in altre parole possiede il suo “genius loci” che ne determina le caratteristiche che possono essere simili, ma spesso originate da presupposti diversissimi. E torniamo alla “cultura” che è un tema che merita di essere discusso e dibattuto: se ricostruiamo il percorso di Provino Valle dobbiamo fare i conti non solo con la storia – quella del contesto – ma anche con la proiezione verso il futuro e metterci alla prova nel progettarne la mediazione. Ecco perché un edificio ex novo appare più congegnale rispetto alla ricostruzione «com’era dov’era», poiché opera quello scarto che permette di cogliere allo stesso tempo le radici, ma anche i rami dell’albero che si proiettano verso l’alto. Ma, oltre al concetto e al metodo, la proposta progettuale dovrà essere valutata non tanto in termini di cubature e normativa, quanto di “estetica” e “architettura”, ovvero composizione, materiali, struttura, funzionalità, insomma l’abili della disciplina. Al termine del nostro percorso verso la contemporaneità potremmo rimpiangere di avere scartato la ricostruzione filologica, ma il nostro ragionevole dubbio sarà mitigato dalla consapevolezza che alla progettazione avranno partecipato giovani professionisti accanto a qualche rinomata “archistar”. E a tale proposito sento di aderire a quanto sostiene Philippe Daverio che considera superato il vezzo di progettare edifici che si possono trovare a Dubai così come a Kuala Lampur o Bilbao e invita a guardare al proprio “genius loci” che costituisce la ricchezza dell’Italia e non ha niente a che fare con i soldi, ma tutto con il nostro patrimonio artistico e monumentale. Ma anche questa è cultura, purtroppo di un genere poco praticato nel Bel Paese che preferisce la colata di cemento, la sesta corsia, il sito con le scorie, ma soprattutto predilige il pensiero “bonsai” o meglio ancora l’assenza dello stesso.<br />