Udine: mandi a Novella Cantarutti

 

Non si è spento ancora l’eco del dolore per la morte di Luciano Morandini che arriva un’altra terribile notizia per la comunità e la cultura friulana: è morta la scorsa notte, all’ospedale di Udine, Novella Cantarutti, 89 anni grande scrittrice e poetessa friulana amica di Pier Paolo Pasolini. La notizia è stata diffusa oggi nella giornata conclusiva della rassegna Pordenonelegge, che alla scrittrice scomparsa ha dedicato un minuto di silenzio. Nel continua a leggere il ricordo di Gianpaolo Carbonetto

di Gianpaolo Carbonetto

L’immagine che rimane impressa di Novella Cantarutti è quella di una donna fragile. Non solo per quel corpo sempre più minuto e sempre più curvo, per quel passo sempre più malfermo, per quell’i nsicurezza crescente nei propri mezzi fisici, ma anche per i suoi modi invariabilmente gentili, per quella sua voce che rimaneva sempre leggera e pacata; anche quando trasudava indignazione.

Ma è un’immagine. Perché la realtà parla, invece, di una donna, fortissima. Mi verrebbe da dire un gigante, se non sapessi che a lei non farebbe assolutamente piacere. Io non voglio ricordarla come scrittrice e poetessa: altri possono e sanno farlo meglio di me. Io desidero fissare il mio ricordo di una persona da guardare sempre con ammirazione; da ascoltare sempre, rapiti dalla sua capacità di narrare appassionatamente tutto, dalle cose più piccole alle più grandi, da quelle più superficiali a quelle più profonde. Desidero ricordare quei momenti di dialogo a casa sua, in un piccolo salotto stipato di libri e ricordi che non facevano apparire minimamente stonato un computer che usava regolarmente e con assoluta perizia. Quei momenti di dialogo, con una delicata tazzina in mano a sorseggiare un caffè di prima mattina per il quale ero spessissimo invitato e che troppo raramente sono riuscito ad accettare, sono nella mia galleria dei ricordi più preziosi.

Novella è stata (riesce difficile usare il passato) una donna di altissima dirittura morale, possedeva un’etica che la sosteneva come una fortissima spina dorsale, un’etica che era la sua guida senza soluzioni di continuità. Lei non sceglieva mai la parte politica, era la sua etica a scegliere chi era più vicino, o meno lontano. Nella sua etica l’essere umano era sempre in primo piano, ed era un essere umano senza distinzioni di pelle, nazionalità, religione, lingua, abitudini. Un essere umano di cui era profondamente innamorata e che la portava a guardare con ostinata indignazione e inalienabile rabbia chi rispolverava antichi razzismi e arcaiche aliofobie ed etero fobie. È una persona (e qui il presente lo posso ancora usare) per la quale nutrirò sempre un’enorme gratitudine perché mi ha insignito di una delle più belle medaglie che possano toccare a persone della mia professione: quella della fiducia.

L’ultima volta l’ho incontrata in pubblico a Palazzolo in una serata in cui, assieme a Furio Bianco, abbiamo ricordato la presa del castello di Sterpo che precedette di poco la “crudel zobia grassa”. Il suo intervento è stato come sempre, competente, lucido, appassionato. Mi ha detto che era sempre più stanca, che la schiena le faceva sempre più male, che accettava soltanto raramente di uscire a parlare.

L’ultima volta che mi aspettavo di vederla, e che non l’ho vista, è stata per la riunione della giuria di saggistica del premio Leggimontagna della quale facevamo parte assieme da un bel po’ di anni. Non se la sentiva di spostarsi da casa sua alla sede della Saf dove ci riunivamo, ma aveva, come sempre, letto con attenzione tutte le opere presentate, aveva preso minuziose note, ci aveva trasmesso i suoi giudizi acuti e talvolta sorprendenti. Poi alla premiazione di pochi giorni fa a Malborghetto non ci aspettavamo di vederla perché sapevamo della sua poca voglia di uscire di casa. Ma, come sempre, quando si pensa a qualcuno a cui si vuole bene, non si immagina che le cose stiano precipitando.

E così la telefonata di questa mattina presto, con cui Marcello Manzoni mi ha detto che era morta, mi ha colto quasi completamente di sorpresa e mi ha riempito di una tristezza che è difficilissimo aggettivare. Anzi, impossibile.

Vorrei dire che da oggi mi sentirò molto più solo. Ma sarebbe sbagliato: è l’intero Friuli a sentirsi molto più solo.

 

2 Risposte a “Udine: mandi a Novella Cantarutti”

  1. Agg del 21/09/09

    di MARIO TURELLO

    La cultura friulana – dopo la recente scomparsa di Lelo Cjanton e Luciano Morandini – perde un altro dei suoi cuori più generosi e una delle voci poetiche più alte e amate di questa terra: si è spenta ieri mattina all’ospedale di Udine, a 89 anni, Novella Cantarutti, la grande figlia di Navarons (Meduno), amica di Pasolini e di tanti poeti friulani, sia nell’Academiuta sia in Resultive, ma anche convinta complice con i suoi incantevoli versi di musicisti come Oreste Rosso, Albino Perosa, Olinto Contardo e della giovane band folk dei Braul. Illustre studiosa di tradizioni popolari, fu per lungo tempo apprezzatissima insegnante di italiano e storia al Malignani di Udine, dopo aver in precedenza diretto la scuola media di Spilimbergo, la città del mosaico dove era nata il 26 agosto 1920 e dove domani (alle 11, in duomo) saranno celebrati i funerali. Novella, nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che questa porta con sé, era comunque molto indipendente e attiva (aveva appena acquistato un computer portatile di cui era entusiasta) e cercava di partecipare con impegno, per quanto possibile, ai numerosi incontri cui era invitata. Proprio per questo, conoscendo la sua grinta e la sua fibra, i parenti, molti amici, conoscenti ed estimatori sono rimasti dolorosamente sorpresi dalla notizia della sua repentina scomparsa. Giovedì notte Novella Cantarutti, che abitava a Udine in viale Cadore, si era fatta accompagnare in ospedale per accertamenti: era stata ricoverata e poi le sue condizioni si sono improvvisamente aggravate fino alla morte, avvenuta ieri mattina alle cinque, nel sonno.

    Difficile, ora, nello smarrimento del compianto per la scomparsa di Novella Cantarutti, dire quanto le debba la cultura friulana, quanto grande e generoso sia il lascito di poesia e di conoscenza della sua vita lunga e sempre operosa. Fin dalle prime liriche, pubblicate sullo Strolic furlan nel 1946 e sul Quaderno romanzo di Pasolini nel 1947, la sua poesia è risuonata in accenti altissimi, nella sua parlata materna «in una prospettiva – ha scritto Rienzo Pellegrini – di assoluto linguistico… in un friulano che evita la comunicazione media e punta al recupero di un di più attraverso le suggestioni foniche, le cadenze melodiche e i tratti arcaici, straordinario mezzo oggettivo e prezioso di estraniamento».

    «Le sue brevissime liriche… vibrano di una trasparenza linguistica di prim’ordine, con immagini essenzialissime e cariche», scrisse il poeta dell’Academiuta, che dichiarò di accogliere la giovane poetessa tra gli aderenti alla fronda antizoruttiana. Ma Novella Cantarutti non appartenne mai veramente ad altri che a se stessa: non alla cerchia casarsese, non al gruppo di Risultive, nel quale l’introdusse Giuseppe Marchetti (ed ella non v’entrò se non «per riguardo» al professore). Di quest’ultimo non condivise mai, anzi avversò, le angustie linguistiche della koiné e quelle formali della villotta, né di Pasolini accettò il “regresso” alla «musicalità pura del simbolismo»: la sua lingua poetica e narrativa fu il friulano di Navarons, non mezzo di sperimentazione o di ricercate suggestioni, ma espressione delle più autentiche urgenze; come scrive Pellegrini, «ragioni più intime, il culto dei morti e la religione delle memorie, suggeriscono l’impiego della parlata materna: è la difesa estrema di una vita che si sta spegnendo, è il tentativo di sottrarre la lingua al flusso del tempo, neutralizzando i germi della trasformazione nella fissità della pagina». Nell’introdurre il racconto (ma è questa una definizione impropria, insufficiente) La femina di Marasint, Diego Valeri dichiarava essere la poesia («in dialetto, non però dialettale») di Novella Cantarutti «una delle più felici avventure della nostra vita letteraria: di noi, dico, ostinati amatori e lettori di poesia», lodandone la cantabilità «secondo natura», aliena da «ogni facilità e lassezza e pigra orecchiabilità»; e riconosceva che alle «stesse leggi di discrezione, di misura, di ritmo interno, di ritmo profondo» obbedisce la sua prosa narrativa, scaturente dalla stessa fonte della sua lirica. Una scrittura che procede, si potrebbe dire, per sottrazione, per distillazione elegiaca di sentimenti custoditi gelosamente. La stessa religione delle memorie che sostanzia la sua espressione letteraria trova misura d’amore nel rigore scientifico della sua ricerca: le dobbiamo infatti innumerevoli studi sulle tradizioni popolari, la cultura materiale, la letteratura orale, la religiosità, le arti minori… «Novella Cantarutti – ha scritto Gian Paolo Gri – ha un posto d’eccellenza anche nel panorama degli studi etnografici friulani. Ha collaborato da protagonista a una intensa stagione di rinnovamento degli studi di tradizioni popolari in Friuli; ha battuto a tappeto soprattutto la tradizione orale, interrogando, raccogliendo, trascrivendo, restituendo splendide edizioni di testi popolari. Con lo stesso incanto raccontato (…) in relazione al narrare delle donne dei suoi paesi quand’era bambina, ha continuato ad ascoltare con rispetto, cosciente della grande fortuna rappresentata dal poter essere inseriti nella corrente di una grande, millenaria tradizione di storie incisive. Dell’oralità conserva traccia evidente anche il suo modo di scrivere, il suo modo di girare la frase».

    Non è questo il luogo, né basterebbe lo spazio, per elencare la vasta produzione di Novella Cantarutti, e per mostrarne qualità e meriti; basti qui chiarire con le sue stesse parole il senso, il sentimento profondo della sua pietas: «Memorare è sentire il segno che traccia una parola nel profondo e seguire la fenditura che si apre non al discorso sterile della nostalgia e che nemmeno si dilata al gioco bello della fantasia: si limita a penetrare dentro strati umani e risvegliarli… Rifiuto la nostalgia in quanto non corrisponde al vero, la falsa idealizzazione del passato. Memorare è un esercizio che può essere anche molto amaro. Lo è per me: la mia vita è fatta di perdite. Io mi impongo di guardare al passato per recuperarlo senza farlo oggetto di nostalgia, per renderlo attivo così che possa ancora operare in me, aiutarmi a continuare a vivere. Questo intendo per fedeltà: continuare a essere quello che si è stati».

    Né va dimenticato come, accanto alle pubblicazioni maggiori, Novella Cantarutti abbia largito dottrina e passione attraverso la collaborazione a riviste e periodici, dalla Patrie del Friûl di Marchetti alle pubblicazioni della Società Filologica Friulana al periodico Il Punto, ove tenne la rubrica Furlanie, ottenendo larga stima, ammirazione, riconoscenza (furono i suoi unici scritti – non scientifici – in italiano, ma ciascuno di essi era accompagnato da una o due poesie in friulano: «l’attenzione al friulano è una costante, una priorità… solo le parole friulane esprimono bene quello che intendo dire: il friulano è la voce del mio pensiero)».

    E andrà anche ricordato, tra le sue benemerenze, l’essersi immediatamente adoperata dopo il terremoto, assieme al sovrintendente Maria Laura Jona, per mettere in salvo monumenti e documenti, consapevole, diceva, che c’era da passare per pazzi, a pensare in quei momenti a carte e chiese, ma pensando che «domani noi o altri si accorgeranno che non ci sono». Dal diario, inedito, di quei giorni traspaiono il grande prodigarsi, l’appellarsi agli amministratori e all’opinione pubblica, il fronteggiare le incomprensioni o, peggio, gli intralci di ottusi disegni politici. E, più tardi, la constatazione amara: «È così, lo diceva anche Turoldo: i friulani sono sempre stati poveri; col terremoto sono diventati ricchi e questo li ha portati a smarrire la propria identità. Quell’identità che rivendicano a piena bocca, e non sanno, non ricordano cosa fosse. Il terremoto segna una cesura; quanto meno ha accelerato e aggravato il trapasso di quest’ultimo mezzo secolo».

    Ora che anche Novella Cantarutti è tra la Int che je lade, al di là della Clusa, si ha la sensazione che con lei finisca una stagione, scompaia un mondo. La salutiamo con quanto ella ha scritto dei suoi morti, l’agna Mariana: «A’ forin a veglala duta la gent, ché jê ai veva giovât a duc’ e ‘a veva judât fin dulà ch’a veva pudût. Encja nô j’ erin duc’ intôr dal fogalâr ch’al ardé, la not intera, un fouc grant come ch’j na vevi mai judût; j’ erin, vîs e muars, sentâs su li’ bancj’ e i cjadreons, pa l’ultima vègla, denant che la cjasa ‘a finìs» (Alla veglia accorse tutta la gente perché lei si era preoccupata per tutti, e aveva aiutato fin dov’era riuscita. Anche noi eravamo tutti intorno al focolare dove bruciò, la notte intera, un fuoco grande come non avevo visto mai: eravamo, i vivi e i morti, seduti sulle panche e i seggioloni, per l’ultima veglia, prima che la casa finisse) e la bisnona Ana Maria: «E a si va, cui belbelu da gloti la muart a ciminìns e cui a scop di manara o di saeta. Ma cui ch’al è stât, par ognun di nô, la pi part dal vivi, encja s’al va ch’al nal pòs pi dâsi la man ch’a si coventa, al è cun nô, al è ta duc’ che fîi ch’a strapòngin la nestra tela, il disegn chi sin, fuart o smàvit, dret o intorteât» (Ma chi è stato, per ognuno di noi, il più, anche se, andando, ci priva della mano necessaria, resta con noi, è nei fili che trapungono la tela del nostro vivere, nel disegno che siamo, deciso e incerto, netto e aggrovigliato).

  2. Gianfranco Ellero dal Gazzettino di oggi

    Fu una presenza aristocratica, quella di Novella Aurora Cantarutti, nel mondo della poesia e della cultura friulana, cioè discreta e solitaria. Nata a Spilimbergo nel 1920, dopo gli studi a Udine, Milano e Roma, fu sempre elegante e controllata tanto in poesia quanto in prosa e per più di sessant’anni distillò i suoi pensieri su pagine che apparivano subito classiche. Scoperta e lanciata come poetessa da Pier Paolo Pasolini, che l’aveva conosciuta sulle pagine degli “strolics” della Filologica, conquistò il lauro (ex-aequo con Dino Virgili) a un concorso dell’Academiuta di lenga furlana nel 1949. Continuò poi a esprimersi in preziose liriche scritte nel natio friulano di Navarons di Meduno, che possono essere definite “ermetiche” soltanto perché quella varietà friulana, con i plurali privati della ‘s’ (“Pagini seradi” è il titolo di una sua opera), con soluzioni fonetiche inusuali (le peraulis della maggioranza dei friulani, a Navarons diventano peravali) e un lessico alquanto originale (memòri stulìdi sta per ricordi arsi) rendono appunto ermetici alcuni dei suoi versi, che rivelano la loro straordinaria bellezza se si ha soltanto la pazienza di penetrare in un lessico comunque inquadrabile nel sistema linguistico friulano. «Le sue brevissime liriche – scrisse Pasolini, il suo Maestro e Amico – vibrano di una trasparenza linguistica di prim’ordine, con immagini essenzialissime e cariche». Rileggiamo allora, oggi, nel giorno dell’addio, uno dei suoi canti: “J’ sielc’ peravali’/ come i coràis, da nina,/ ch’j fasevi/ intor dal cuél/ caròni’ lustri’. J’ sielc’ peravali’/ pengi di mâl da vivi,/ par caròni’ impiradi’/ di piera sorda”. (in traduzione letterale: Scelgo parole come i coralli da bambina, che facevo intorno al collo luccicanti corone. Scelgo parole dense del male di vivere, per corone infilzate di pietra sorda).

    Novella Cantarutti non era soltanto una raffinata poetessa intenta a esprimere i suoi sentimenti in preziosi grappoli di versi che possedevano – scrisse Andreina Ciceri nell’“Antologia della letteratura friulana” del 1975 – il nitciano “pathos della distanza”; era anche un cuore attento e vibrante, che sapeva essere presente nei momenti importanti. (Io ricordo, ad esempio, la sua pronta adesione al Manifesto per la ricostruzione del Friuli, firmato da un gruppo di artisti e intellettuali il 12 maggio 1976). La Poetessa era anche una felicissima narratrice (“La femina di Marasint”), un’appassionata studiosa di tradizioni popolari, e, naturalmente, un’eccellente insegnante di lettere in un istituto superiore di Udine. La “summa” della sua poesia si trova nel volume “In polvara e rosa” del 1989, ma altre sarebbero le opere da citare, come “Polvere di gente” con il fotografo Giuliano Borghesan, con il quale aveva già collaborato nel 1954, su “Ce fastu?” per la processione del Venerdì Santo a Erto. Di grande interesse le pagine del suo diario. Ne pubblicò qualche stralcio nel volume “Pasolini in Friuli” del 1976, compilato a più mani dopo la tragica morte del Poeta. A conclusione di questo ricordo, possiamo rileggere le ultime tre righe del suo contributo, che appaiono particolarmente adatte alla circostanza: “Mi scriveva Pasolini, in una lettera del 1953: Come va lassù, in quelle non più terrene latitudini? Non più terrene latitudini”.

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