Vino: come cambia in Italia e nel Friuli

Un settore che sembra immobile, ma che non lo è; prodotti vinicoli che sembrano sempre ricalcare se stessi, ma che invece mostrano i segni di un cambiamento che non è più impercettibile. Questo è quello che emerge dall’analisi contenuta nella "Guida ai vini d’Italia " «L’Italia del vino è cambiata molto negli ultimi anni, e continua a cambiare in modo significativo. Dopo anni di netta prevalenza del modello di vino molto concentrato, ottenuto da varietà internazionali, e della relativa rincorsa da parte delle aziende ad adottare metodi più o meno invasivi per irrobustire i loro prodotti, si sta passando a uno stile più naturale». È quanto scrivono Enzo Vizzari, Ernesto Gentili e Fabio Rizzari, direttore e coordinatori della guida I vini d’Italia 2009 de L’Espresso.<br />
«Non solo vini strutturati quindi, ma anche vini fini e profumati, non solo vini fruttati ma anche vini più fedeli al carattere del loro territorio. Gli eccessi non sono spariti, beninteso, tutt’altro: a prescindere dalle furbizie di cantina, ci si è affidati e ci si affida ancora oggi a rese sin troppo basse, alla ricerca spasmodica della maturità fenolica, senza tenere conto degli equilibri complessivi, dell’acidità, della freschezza aromatica. L’eccesso d’alcol, più frequente anche per i mutamenti climatici degli ultimi anni, è particolarmente difficile da digerire per una bella fetta di consumatori. Il crescente successo delle bollicine, il recupero di certi vini bianchi, la rivalutazione di tipologie fino a poco tempo fa meno ricercate – come i Lambrusco – è infatti almeno in parte da attribuire alla loro leggerezza alcolica.
Per dirla in un altro modo: si leggono i sintomi di una transizione da vini che si sorseggiano a vini che, vivaddio, si bevono. Un passaggio non indolore: un’industriale che fabbrica maglioni può cambiare colori e forme nel giro di pochi mesi per adeguarsi alle mode, mentre un vignaiolo deve fare i conti (per fortuna) con i ritmi lenti della terra. Un vignaiolo, se è onesto, deve quindi cambiare strategia gradualmente, nel corso di anni. Altrimenti può adottare le classiche scorciatoie enologiche, che però si rivelano soluzioni fragili, inadatte ad affrontare il mercato sul lungo periodo. Ecco quindi fiorire oggi, qua e là in modo abbastanza scomposto e velleitario, la voga del vitigno “autoctono”, dell’uva locale, o localissima, della quale sopravvivono solo quattro filari: da nord a sud è tutta una riscoperta di “salcaramina buccellata”, “rubeschino a foglia quadrata”, “rutilio di Rodi”, e simili rarità ampelografiche. Anche se simpatizziamo per questo ritorno alle nostre radici più antiche, da buoni critici – come speriamo di essere – non possiamo prendere acriticamente partito per ogni vino ottenuto da uve tradizionali.
Il nostro compito è e rimane ovviamente quello di distinguere il buono dal meno buono, l’onesto dal furbesco, il vino autentico dal vino “costruito”. E così come fino a qualche tempo fa vino costruito faceva spesso rima con vino “moderno”, da uve quali il cabernet o il merlot, oggi si possono e si devono smascherare per vini costruiti anche prodotti che passano per il non plus ultra del rispetto territoriale: ad esempio, certi bianchi macerati sembrano ormai fatti con lo stampino, come una volta si facevano in serie i Merlot frutto/rovere nuovo. A costo di suonare monotoni: è necessario giudicare caso per caso, e non per generalizzazioni. Non esistono soltanto Chardonnay banali, così come non si danno solo buoni vini da varietà autoctone».

Una risposta a “Vino: come cambia in Italia e nel Friuli”

  1. “Se vin di fevelà di vin al è poc ce dì:il vin alè blanc, neri, bon e trist. Vonde. Dut ce che si pos dì ancjemo, alè nome filosofie”.

    Ci dimentichiamo spesso che il vino è un alimento, non una roba da collezionare, che sotto un certo prezzo la cosa puzza e sopra un altro prezzo la cosa puzza di più, non credi?

    mandi

    [email protected]

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