Carnia: addio a Giobatta Mecchia detto Tita, partigiano deportato a Dachau, poi socialista a capo dell’Usl3 carnica

Foto di Carlo Petris.

di Gino Grillo.

Lutto nel mondo politico carnico: nell’ospedale di Tolmezzo si è spento a 96 anni Gio Batta Mecchia, conosciuto da tutti come “Tita Mecchia”. Per sua espressa volontà, e della moglie Lucia De Reggi, le esequie sono già avvenute in forma privata e la sua salma è stata cremata. Mecchia, per oltre un ventennio, è stato il “deus ex machina” della vita politica della città e anche della Carnia intera. Iscritto all’allora Partito socialista italiano, fu per 10 anni vicesindaco di Tolmezzo con Della Marta, quindi assessore ai lavori pubblici della Comunità montana della Carnia, membro del consiglio di amministrazione di Autovie Venete, presidente dell’Azienda sanitaria dell’Alto Friuli e presidente della Carovana scaricatori. A fine carriera politica attiva, lavorò come portiere alla Cartiera Burgo e divenne “maestro politico” dell’ex governatore della Regione Renzo Tondo. «Provo per questa persona molto affetto e riconoscenza – afferma Tondo -, era un mio amico, e prima ancoa un amico di famiglia, in particolare di mio padre. Da lui ho appreso i primi rudimenti della politica attiva, all’interno del Partito socialista. Ricordo – prosegue l’ex sindaco di Tolmezzo – che da giovane spesso quando chiudevo il mio albergo “Al Benvenuto”, verso le 23, prendevo la bicicletta e andavo da Tita Mecchia nel box della Cartiera. Molte scelte, strategie e progetti politici sono nati proprio lì, nella portineria della Cartiera». Oltre che amico di famiglia, Renzo Tondo fu anche suo discepolo, politicamente parlando: «Era molto orgoglioso di me – prosegue l’ex governatore -, ma anche mio severo censore su certe mie scelte che non condivideva». Da sempre militante nel Psi, Mecchia ha avuto anche qualche incidente di percorso, in particolare quando venne accusato di malgoverno nel periodo del post-terremoto. In gioventù Tita sperimentò pure in prima persona l’orrore dei campi di concentramento nazisti. Partigiano della Garibaldi con il nome di “Zane” venne fatto prigioniero durante un rastrellamento delle truppe cosacche il 25 ottobre del 11944 a Verzegnis. Venne portato nella caserma di Tolmezzo e poi nelle carceri di via Spalato a Udine dove i tedeschi gli chiesero di fare i nomi dei compagni partigiani. “Zane” resistette alle violenze e alle botte e non segnalò alcun nome nella lista propostagli dai nazisti. Così, Tita Mecchia venne trasferito nelle baracche di Dachau dove divenne il numero 128.131. Nel gennaio 1945 venne trasferito a Brandeburgo, nello stabilimento della Opel e all’arrivo dei russi con alcuni internati tentò una fuga che lo portò a Magdeburgo dove si consegnò agli americani. Ritornato in patria, iniziò la sua militanza politica che segnò per oltre 20 anni la vita di Tolmezzo e della Carnia.

Riproponiamo un articolo del ;essaggero Veneto del 27 gennaio 2013

«Zane, Zane anche tu qui. Ah dove sei capitato». Gio Batta Mecchia era appena entrato nella baracca assegnatagli quando udì queste parole. Si voltò e su una sedia, raggomitolato in un mucchio di stracci, scorse un conoscente di Imponzo. Non lo vide mai più. Inghiottito nell’inferno del lager, vittima di quell’orrore chiamato Dachau.

Era stato catturato il 25 ottobre 1944, Zane (questo il suo nome di battaglia), durante un rastrellamento delle truppe cosacche a Verzegnis. Venne portato prima nella caserma di Tolmezzo e poi nelle carceri di via Spalato a Udine. I tedeschi volevano i nomi dei compagni partigiani. Gli mostrarono una lista. Ma non servirono le violenze, non servirono gli interrogatori né le botte. Lui non cedette.

E non parlò. Di lì a pochi giorni venne caricato su un treno merci verso una destinazione ignota. Durante il viaggio, di notte, alcuni tentarono di salvarsi gettandosi dai piccoli finestrini. Ma le tenebre avvolgevano tutto, anche i dirupi e le rocce contro le quali spesso trovavano la morte. Poi, l’arrivo. «Venimmo spogliati di tutto – racconta –. Ci misero dentro delle enormi sale da bagno per toglierci i pidocchi e ci diedero i vestiti civili. Da allora divenni il numero 128131. Pativamo la fame e la sete, ci davano una brodaglia e una fettina di pane ma soprattutto il freddo dell’inverno tedesco. Tanto che per scaldarci ci mettevamo in gruppo uno a fianco all’altro e a turno occupavamo i posti centrali».

Si viveva con la paura, nel campo. Erano stati radunati nel piazzale per assistere all’impiccagione di un polacco che si era ribellato contro un kapò quando Zane vide per la prima volta, tra le baracche, il fumo uscire da un camino. «Non mi resi conto del pericolo che correvo – ricorda –, non si percepiva l’odore e nessuno di noi sapeva a che cosa servisse. Lo scoprimmo dopo».

I primi di gennaio 1945 venne trasferito a Brandeburg, nello stabilimento della Opel «dove dovevamo sgomberare macerie e morti a causa dei bombardamenti degli americani e degli inglesi». Con la primavera arrivarono anche le notizie che le truppe russe erano alle porte di Berlino. Fu allora che decise, insieme ad alcuni compagni, di intraprendere la fuga. Camminarono di notte per sette giorni. Giunsero a Magdeburg e qui, nel tentativo di oltrepassare il fiume Elba, si trovarono in mezzo ai due fuochi: da una parte i tedeschi, dall’altra gli americani. Si nascosero dietro ai blocchi di cemento del ponte bombardato per 48 ore e poi riuscirono a raggiungere la sponda destra.

Si fermarono un mese in un campo gestito dagli americani e una volta riprese le forze, presero ciascuno una strada diversa per tornare a casa. Zane nella sua Tolmezzo dove una trentina di anni dopo fu eletto prima assessore e poi consigliere. Dice che riuscì a salvarsi «grazie alla fortuna». Lo dice ricordando, per esempio «l’arrivo del comandante dei cosacchi su un cavallo bianco che fermò i sottoposti intenzionati a fucilarci». Oggi ha 86 anni, Non è mai più ritornato a visitare il campo di Dachau “da uomo libero”. «No, è una ferita che ancora tornerebbe a sanguinare».