Carnia: sostenere la Divina Commedia

di Tobias Fior

Passata la rabbia iniziale dopo aver letto della proposta fatta dall’organizzazione ONU Gerush92 di abolire lo studio della Divina Commedia dai programmi scolastici, metto nero su bianco le mie idee. Le “accuse” rivolte all’opera madre di tutta la letteratura italiana e conosciuta in tutto il mondo sono di antisemitismo, islamofobia e razzismo nei confronti degli omosessuali. Queste le parole stesse di Gerush92: «E’ uno scandalo che i ragazzi, in particolare ebrei e mussulmani, siano costretti a studiare opere razziste come la Divina Commedia, che nell’invocata arte nasconde ogni nefandezza. Antisemitismo, islamofobia, antiromani, razzismo devono essere combattuti cercando un’alleanza fra le vittime storiche del razzismo proprio su temi e argomenti condivisi come la diversità culturale». A questo punto occorre fare alcuni appunti storici a Gerush92 perché evidentemente non ha inteso in che epoca sia stata scritta. La composizione di tale opera è situata dai critici tra il 1304 e il 1321, sul finire del Medioevo, un periodo politicamente e religiosamente assai movimentato. Un periodo dove i papi avevano potere religioso e politico, dove chi non era cristiano, era come minimo imprigionato, come massimo torturato e messo al rogo. Cento anni prima circa il teologo, poi santo, Bernardo di Chiaravalle aveva detto che chi uccide un uomo cattivo, quale è chi si oppone a Cristo, non uccide un uomo, ma il male che è insito in quest’uomo, dunque non è un omicida bensì un malicida, un uccisore del male. Queste parole furono dette in occasione della seconda Crociata in Terra Santa. Quindi Dante Alighieri, giudicato da Gerush92, islamofobo, non faceva altro che attenersi alle idee del periodo. Chiunque non fosse cristiano era considerato eretico e passato a fil di spada. Si conosce benissimo la vicenda della Crociata contro i Catari avvenuta tra il 1209 e il 1229, condotta dal papa Innocenzo III. Non solo, si conoscono bene anche le vicende che hanno stigmatizzato i neonati ordini francescani (quello conventuale e quello pauperistico). Quindi se vi erano di questi problemi all’interno della Chiesa stessa con i vari movimenti che cominciavano a staccarsi, figurarsi essere un musulmano o un ebreo in quel periodo. Non era una cosa assolutamente possibile. Gerush92 condanna la Commedia per il fatto che Giuda Iscariota si trovi all’Inferno tra i traditori, assieme a Bruto e a Cassio. Gerush92 però accusa di antisemitismo Dante per il fatto che il termine giudeo deriva da giuda e quindi è una chiara offesa verso gli ebrei. Nulla di più sbagliato! La parola giudeo non deriva affatto dal nome del traditore di Gesù, bensì dal territorio di Giuda, che a sua volta discende da una delle tribù di Israele, Giuda appunto. Maometto è attacco per il semplice fatto che era considerato giustamente per quel periodo un eretico, profeta di una religione che non era quella cristiana. A questo punto l’appello è solo uno se i ragazzi ebrei e musulmani sono obbligati a studiare l’opera dantesca, l’insegnante dovrà spiegare che i versi considerati “razzisti” sono da leggere in un contesto storico-sociale-religioso completamente diverso da quello attuale. Ma, visto che gli insegnanti sanno contestualizzare il tutto, evidentemente gli unici a non aver capito questo sono i membri di Gerush92. Ultima fra le accuse c’è anche quella di attaccare gli omosessuali. Infatti Dante colloca i sodomiti all’Inferno. Ma Dante si rifà alla Bibbia, dove prima, nella Genesi, c’è la distruzione di Sodoma da parte di Dio, nel Levitico, sta scritto: «Non avrai con un maschio relazioni come si hanno con donna: è abominio» (Lv, 18,22) e ancora: «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio» (Lv, 20,13). In questo caso era prevista la pena capitale, la lapidazione, quindi è normalissimo che il sommo Poeta collochi i sodomiti tra le fiamme dell’Inferno. Tra l’altro gli omosessuali sono tutt’ora “condannati” dalla Chiesa, anche se in maniere meno forti rispetto ai tempi passati. Quindi non è solo un aspetto della Divina Commedia, bensì della Chiesa intera e dei suoi Ministri. Ma vorrei ricordare a Gerush92 che Dante con la Divina Commedia trasformò la lingua italiana. Si studia la Divina Commedia per comprendere, seppur attraverso il momento storico in cui visse Alighieri, la trasformazione di una lingua. Le tre cantiche dell’opera rappresentano l’evoluzione della lingua italiana e la si studia per questo aspetto rivoluzionario che Dante ha dato alla lingua italiana. Le accuse dunque sono senza alcun fondamento, dimostrano solamente ignoranza in merito. Vorrei concludere con le parole che Dante mette in bocca a Virgilio parlando degli ignavi: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

Una risposta a “Carnia: sostenere la Divina Commedia”

  1. ermes dorigo

    Scritto in occasione della mostra sulla Divina commedia, il « poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra», di Georges Vriz a Palazzo Frisacco

    Perché tornare ancora a Dante? Perché, come scrive Anna Maria Chiavacci Leonardi, «il mondo che egli vide, e raccontò nei suoi versi – l’uomo, la natura, la storia, la realtà divina, e il destino finale della persona -, ha una sua determinata connotazione storica: è quella concezione dell’uomo che il cristianesimo portò nell’Europa greco-romana, trasformandone la cultura e la storia, pur mantenendo, anzi facendoli propri, i fondamenti razionali che il pensiero greco aveva dato una volta per tutte all’universo. Ora le idee fondanti della nostra cultura – della filosofica, dell’etica, della politica – sono ancora quelle (sulle quali di fatto si costituì l’Europa), anche se la concezione del mondo che esse comportano non è più imposta da una chiesa che abbia un potere storico dominante o da un’autorità politica che se ne faccia custode. […] la poesia di Dante coglie e tramanda non la lettera, ma lo spirito di quella cultura nella quale ancora l’Occidente attinge – anche senza saperlo – le ragioni interiori del suo stesso esistere. Il valore primario e intangibile della persona – da cui discendono tutti gli altri: la fedeltà, la pietà, il diritto alla libertà, i «diritti umani» -, valore su cui si fonda ogni aspetto del vivere civile, è in realtà quella che sta al centro del cristianesimo, e che è ugualmente il nucleo ispiratore di tutta l’opera di Dante. […] Egli è un laico, non un uomo di chiesa – e cioè un uomo immerso nella storia, che della storia si fa carico e della storia conosce tutti i dolori, e dell’uomo conosce – e ne è partecipe – la miseria e la grandezza. […] Quest’uomo storico è dotato di libertà; a lui è dato di scegliere, nel tempo, la propria condizione eterna. […] Tale duplice aspetto del poema – l’eterno e lo storico – costituisce la sua condizione primaria, e Dante ne era consapevole quando lo definì il poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra (Par. XXV, 1-2)» .
    E perché, come scriveva Ugo Foscolo, «egli descrive tutte le passioni umane, tutte le azioni, i vizi e le virtù. Li colloca nella disperazione dell’Inferno, nella speranza del Purgatorio, nella beatitudine del Paradiso. Egli considera gli uomini nella giovinezza, nella virilità, nella vecchiaia. Ha posto insieme le persone di entrambi i sessi, di tutte le religioni, di tutte le professioni, di ogni nazione, di ogni età; inoltre non le considera in massa, ma sempre le presenta come individui» , esaltando il valore dell’individuo, la sua storicità, il libero arbitrio, la sua volontà e possibilità, continuamente messa a dura prova, di scegliere tra il Bene e il Male.
    Per Jacqueline Risset, la maggior dantista francese, perché la Comédie «est pour nous la première étape du gran roman initiatique d’une civilisation qui est racine de la nôtre» , e a proposito delle rappresentazioni che Dante ci dà del Male, della sua terribilità e attualità, scrive: «l’Enfer est la représentation de la decadence de l’umanité. On pense à la terribile carte d’Europe qu’on peut voir ancore à Auschwitz, où un réseau secret semble avoir pris la place des réseaux de chemin de fer connu: toutes les capitales y figurent avec leur nom, mais elles ne sont pas reliées entre elles – une seule ligne les relie toutes, une par une, au point central du réseau, marqué par le nom Auschwitz. Et l’aspect même de parodie de production industrielle donné au camp de la mort par les cheminées de fours crématoires apparaît comme préfiguré dans la description du fond de l’Enfer […] Lucifer est un moulin à vent, à la fonction réfrigérante; ses larmes, production mécanique, répétitive, incosciente, contribuent à la définition du mal comme activité industrielle – dans l’acception de répétitivité immuable et morte» . E per quanto riguarda il Purgatorio, precisando che la sua simpatia va tutta al Paradiso, «vol de lumières à la limite des possibilités de perception» , afferma che «malgré les tourmants racontés, la mémoire du lecteur garde l’image d’une montagne au milieu de la mer, dans la lumière du soleil, habitée par les anges, rytmée par le manifestations de l’art – sculptures, chants, rencontres de poètes -, image d’un lieu de telle sorte que devenir bon y signifie devenir léger» .
    Con questo siamo entrati nel cuore del Poema, un viaggio iniziatico, che Dante percorre in forma visionaria e profetica, e, come scrive nella Epistola XIII a Cangrande della Scala, del quale «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis» .
    La mia insistenza sulla Risset non è casuale, perché penso che Georges Vriz sia stato profondamente influenzato da questa studiosa anche nella scelta del punto di vista e, conseguentemente, delle forme della rappresentazione e, quindi, pure nelle scelte tecniche, in quanto ella afferma che Inferno e Purgatorio non sono che una preparazione del Paradiso e la scelta cromatica di Vriz segue pienamente questa interpretazione: braquiani e fantasmagorici ocra e rosso bruno che imprigionano nella materialità la luce nell’Inferno sono presenti anche nel Purgatorio, luogo di espiazione, ma sempre più illuminati dal rasserenante blu di Prussia, dal giallo delle stelle, dal bianco e dalla luce, che esploderà nel giallo cromo dorato e splendente del Paradiso. In una intervista l’artista così spiegava la sua scelta di cimentarsi con la grandezza di Dante: «Nel 1994, quando mi vinse il desiderio di realizzare La divina commedia, rimasi come folgorato. Non ebbi il minimo dubbio che mi apprestavo a vivere un’avventura, che sarebbe durata più di tre anni. Ero completamente preso, dissolto in questo magnifico poema. Prima ancora della modernità di questo testo, mi prese la brama incontenibile di realizzarne una illustrazione: alcune illustrazioni, inizialmente. In forma quasi naïve, con candore e semplicità e naturalezza: io non avevo assolutamente l’intenzione di realizzare l’immensità teologico-filosofica dell’opera dantesca. Man mano che procedevo nella mia impresa la mia incertezza e ritrosia a illustrare tutto diveniva sempre più evidente: però sentivo che dovevo andare a fondo a tutti i costi. Sì, ma come? Accademicamente?… sicuramente no. Completamente figurativo?… non più. Astratto? Perché no? Io volevo andare il più vicino possibile alla interpretazione di Dante: ero diventato suo amico e non volevo assolutamente tradirlo. Lavoro e impegno gravoso e oneroso, quasi velleitario e senza d’umiltà. A furia di leggerlo e di rileggerlo, io ridiventai un bambino, mi meravigliavo, non comprendevo più bene ciò che emanava e mi arrivava dall’opera. A questo proposito nella Gazette Drouot , si parla proprio di una figurazione onirica e allusiva. Decisi di farne una illustrazione, la cui lettura potesse essere compresa da un bambino, in una forma, in una illustrazione, appunto, quasi naïve. I bambini sentono e comprendono la poesia spesso meglio degli adulti. Ma non bisognava cadere in una forma espressiva troppo infantile per rispetto e in relazione all’altezza del meraviglioso poema di Dante. Scelsi, per ‘incorniciare’ le mie illustrazioni, tre figure geometriche: il quadrato, il triangolo e il cerchio, forme altamente simboliche e di significato universale. L’avventura poteva cominciare: è durata tre anni di dubbi, d’incertezze e di gioie.
    E’ dal Paradiso che io ho avuto le più grandi soddisfazioni e le maggiori difficoltà:

    Outrepasser l’humain ne se peut
    signifier par des mots : que l’exemple suffise
    a ceux à qui la grâce réserve l’expérience.

    Trasumanar significar per verba/
    non si poria; però l’essemplo basti/
    a cui esperïenza grazia serba.

    Questi versi magnifici mi hanno guidato durante la mia illustrazione» .
    La Risset apre l’introduzione a Le Paradis proprio col titolo Trasumanar e scrive, tra l’altro, sulla suggestione forse di una affermazione di Osip Mandel’štam, circa la lingua della Commedia, in cui egli ravviserebbe una «affinità della lingua italiana con il babilage della prima infanzia» , « Enfance et Paradis. En Enfer et au Purgatoire, lorque Virgile le secouait, l’image était celle d’un adulte, plutôt maternelle, protégeant un enfant apeuré. Au Paradis, et de plus en plus vers les derniers chants, le rapport avec Béatrice prend la forme de celui d’une mère avec son enfant nourrisson. Et le poète qui achève sa traversée, s’approchant de la vision insoutenable, se sent proche du discours d’un enfant qui baigne ancore la langue au sein (Par. XXXIII, 108). Le vol du Paradis, allant vers le Point, provoque une sorte de violent retour dans le temps, vers la naissance» . In un libro precedente, tra i fondamentali della critica dantesca, aveva scritto a proposito dell’emistichio figlia del tuo figlio (Par. XXXIII, 1) della Preghiera alla Vergine di san Bernardo: «paradosso che stabilisce la circolarità della procreazione, e l’idea di un rapporto totale tra due esseri, in quanto percorso in tutte le direzioni possibili: la verginità della Vergine non appare più come interdetto della sessualità nel rapporto con la donna vista come madre – situazione fissa, centrata appunto sull’assenza di rapporto – ; curiosamente si rivela invece punto di partenza di un rapporto circolare, nuovo, così intenso da giungere fino alla generazione reciproca. Ora, questa circolarità anima per intero l’ultimo canto: dal cerchio della generazione reciproca alla quadratura del cerchio sognata negli ultimi versi dal geometra con cui Dante s’identifica»
    Leggere Dante significa per un artista partecipare alla «gioia dell’invenzione assoluta, libertà fantastica senza confini e come ebbrezza di maneggiare (plasmare) un materiale infinitamente duttile e violentemente amato» , con la consapevolezza del ‘geométra’, appunto, quando conclude il suo viaggio celeste: Qual è il geométra che tutto s’affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond’elli indige (Par., XXXIII, 133-135), vale a dire che l’Assoluto rimane sempre ineffabile e irraggiungibile all’umano, al punto che Vriz, con un atto d’umiltà, mentre aveva chiuso le prime due cantiche con i famosi versi e quindi uscimmo a rivedere le stelle e puro e disposto a salire a le stelle, non ardisce chiudere il Paradiso, sostituendosi quasi a Dio, con l’amor che move il sole e l’altre stelle, ma appunto con una similitudine sulla umana debolezza. Pur tuttavia rimane l’ebbrezza che Vriz ha provato, elaborando per questa difficile prova una nuova possibilità espressiva: « Quanto alla tecnica, ho deciso di lavorare su carta per costruire un’opera che fosse fragile: perché? Non lo so dire. Un foglio di carta incollato su foglie di legno; come fondo ho utilizzato della polvere di legno, della segatura finissima che io preparavo da solo, ricavandola da noce, acacie, sicomori e qualche legno colorato; segatura che mescolavo a della colla e che applicavo e distendevo con la spatola. Una volta che questa patina si era seccata e indurita, sono intervenuto per dipingere i miei personaggi con pastelli e matite. E’ una tecnica mista ancora mai utilizzata per quanto io ne sappia. I disegni preparatori sono realizzati tutti con pastello secco su carta. Comunque, questa tecnica mi ha permesso di arrivare più vicino alla mia interpretazione, era completamente al servizio della mia ispirazione. Molto densa e intensa. Molto intensa la poesia di Dante, altrettanto intensa la materia che mi serviva per esprimerla Le mie fatiche terminarono; mi ci sono voluti alcuni mesi per uscire fuori e liberarmi dalla Commedia, a tal punto la mia concentrazione mi aveva preso ed era stata grande. Quando io dico ‘uscire’ è un modo di dire, perché uno non ‘esce’ mai dalla Commedia, dopo che uno ha avuto la grazia di entrarci. Tutto ciò che io ho provato, amato, si trova nelle mie illustrazioni e spero di non aver assolutamente fallito in questa meravigliosa avventura. Io non sono molto bravo nella ‘dialettica’ ma io credo che Lei abbia compreso a fondo il mio lavoro e saprebbe certamente parlarne meglio di quanto io non sappia fare: come Lei sa, gli artisti sono gli ultimi a poter parlare della loro opera».
    Non sono mancate le polemiche circa la raffigurazione di un terrigeno Dante ‘nero’(tale rimane l’anima finché dal corpo non si disnodi, Par. XXXI, 90) in controluce nel Paradiso e per la presenza ancora del nero nella luminosità delle sfere celesti. Probabilmente quei critici non hanno ricordato che il Paradiso, pur tutta luce e musica celesti, è percorso dalla materialità terrestre: la terra proietta la sua ombra oscura nella luminosità delle sfere; la potenza del Male, sembra suggerire Vriz, vorrebbe attentare anche a Dio ; ed è mancato, inoltre, ad essi lo sguardo ingenuo del bambino che, simultaneamente, comprende la miseria e la grandezza dell’uomo, la sua indissolubile sostanza di oscura materia e luminosa spiritualità, la distanza incolmabile dalla Divinità, se non interviene la Grazia: forse in queste tavole del Paradiso Vriz ha espresso più compiutamente la metafora dell’uomo, materia oscura e scintilla del divino, sintesi del cosmo, che appare in tutte le sue manifestazioni attraverso le macchie di colore e gli armonici disarmonici accostamenti cromatici.
    Comunque, indipendentemente da quanto l’artista dice e sa della sua opera, spetta al critico se non di risolvere almeno di porre alcuni interrogativi e proporre delle ipotesi di soluzione, di cercare di comprendere la motivazione che lo ha spinto a questo confronto, non da ultima il suo legame profondo con le radici culturali italiane (si pensi alla sua opera Omaggio a Michelangelo); critico insospettito soprattutto dalle scelte e dalle esclusioni operate. Ad esempio, mancano le illustrazioni topiche, che più facilmente si prestano a suscitare l’emozione o scolastici ricordi; sono assenti i mostri e le grandi figure: Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Farinata, il Minotauro, Gerione, Lucifero addirittura (che però si rivela nelle deformate fattezze del conte Ugolino), e così via per le altre due cantiche. A questo proposito Vriz potrebbe apparire in contraddizione con le sue asserzioni, in quanto le fiabe per bambini sono popolate di esseri minacciosi. In realtà, egli non ‘illustra’ la Commedia, ma attraverso Dante ripercorre la sua vita in una sorta di biografia spirituale, per riordinare la quale sceglie non la ragione, troppo cruda, ma il bambino, che è dentro di lui con la sua creatività e col suo sguardo sorpreso e distaccato, giocando con una ricchezza cromatica davvero incantevole e fascinosa, che aiuta l’adulto, incamminato verso la vecchiezza, a trarre un bilancio della sua esistenza umana e artistica; a guardare, ad esempio, serenamente alle sue debolezze, non peccati e vizi (i veri mostri), che egli incontra e attraversa nella sua discesa infernale e nella faticosa ascesa purgatoriale, la cui montagna rappresenta la metafora vera della vita umana, quando è guidata dalla volontà di migliorare continuamente se stessi.
    Soprattutto con la sua bontà e innocenza (Fede ed innocenza son reperte/ solo ne’ pargoletti; poi ciascuna/ pria fugge che le guance sien coperte, Par. XXVII, 127-129) e il suo amore, un filo conduttore, questo, del viaggio interiore dell’artista sub forma Dantis: Dio è Amore e l’amore terreno ci avvicina a Lui, ci guida, ci dà una direzione, una speranza; i dannati odiano e sono disperati e tali sono quelli che inclinano in terra verso i bassi istinti, la malizia, la menzogna, l’ipocrisia, la falsità, la superbia arrogante (Quanti si tegnon or là su gran regi/ che qui staranno come porci in brago,/ di sé lasciando orribili dispregi,Inf. IX, 45-48), prigionieri delle Erinni e della volgarità: il nostro volgare mondo contemporaneo, rappresentato nel suo degrado con forte realismo da Vanni Fucci, Taide, Malacoda, che avea del cul fatto trombetta (Inf. XXI, 139) e nella sua decadenza dal Veglio di Creta (Inf. XIV); degrado e decadenza sintetizzati nei famosi versi: Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello! (Purg. VI, 76-78).
    Nell’Inferno non c’è amore, se si fa eccezione per quello struggente ed infelice di Paolo e Francesca (Amor, ch’a nullo amato amar perdona, V, 103), mentre esso si fa sempre più intenso, rendendo più leggero Dante, nell’atmosfera malinconica e serena del Purgatorio, dove viene focalizzato nell’interrogativo di Pisistrato (Che farem noi a chi mal ne desira,/ se quei che ci ama è per noi condannato?, XV, 104-105); amore che è responsabilità dell’uomo mantenere acceso dentro di sé (Onde, poniam che di necessitate/ surga ogne amor che dentro a voi s’accende,/ di ritenerlo è in voi la podestate, Purg. XVIII, 70-72) e che si rivela compiutamente, nella sua essenza spirituale e creativa, nell’incontro di Dante con Bonagiunta Orbicciani: I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando (XXIV, 52-54), che è anche, per interposta persona, una dichiarazione di poetica di Vriz; inno all’Amore che culmina nella terza cantica, pervasa tutta dalla Carità.
    Dopo aver sperimentato nell’Inferno i grandi mali del mondo, generati dall’assenza di valori (una parte di umanità talmente ridotta a cosa da non essere neppure degna di essere rappresentata, ma solamente graffita come negli scheletri infantili, che evocano allusivamente anche quelli della fame nel mondo); dopo aver trovato nell’amore la fiamma che avviva la spiritualità, altro tema centrale si rivela quello dell’ascesi catartica attraverso l’arte, strumento di affinamento e di elevazione interiore e di possibile sopravvivenza nel ricordo dei posteri («Omai convien che tu così ti spoltre»,/ disse ‘l maestro; «ché, seggendo in piuma,/ in fama non si vien, né sotto coltre», Inf. XXIV, 46-48), per raggiungere la quale: Vien dietro a me, e lascia dir le genti!/ Sta’ come torre ferma, che non crolla/ già mai la cima per soffiar di venti (Purg. V, 13-15); aspirazione all’umana immortalità subito temperata e liberata da ogni forma di superbia: Di che l’animo vostro in alto galla,/ poi che siete quasi antomata in difetto, / sì come vermo in cui formazion falla? (Purg. X, 127-129). Una lezione d’umiltà, che l’artista rivolge a se stesso, consapevole che Dante è per lui come l’Eneida per Stazio (Purg. XXI, 97-98): mamma/fummi, e fummi nutrice, poetando per l’uno, dipingendo per Georges.

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