Friuli: dobbiamo fare di più per rilanciare la cultura, pena il progresso della nazione


di Graziano d'Osualdo, Corno di Rosazzo

Innanzitutto definisco che cosa intendo io per cultura: capacità di senso critico verso la realtà che ci circonda e verso la situazione interiore di ognuno di noi. Premesso ciò, espongo in modo sintetico il mio punto di vista sull’argomento. Purtroppo in Italia non esiste un ceto medio veramente diffuso ed acculturato, capace di portare una vera critica di classe, collaudata nel tempo e diffusa alle masse sottostanti. Da noi si passa dal popolo minuto e dalla piccola borghesia alla classe dirigente. È vero che ci sono i liberi professionisti, i piccoli industriali, gli artigiani e i piccoli commercianti, ma quelli sono dediti a tutto fuorché alla propria crescita culturale e all’educazione degli altri rispetto alle cose fondamentali, che garantiscono la coesione e il buon funzionamento dell’intero Paese, perché risentono dell’influenza negativa degli ambienti di provenienza, specialmente nel Meridione, ambienti che spesso sono estremamente conservatori nel senso negativo della parola spesso sono bigotti culturalmente provinciali. Comunque, tutti sono dediti all’arricchimento personale, piuttosto che all’accrescimento culturale proprio ed altrui. Sia il comportamento della classe dirigente, che quello dei ceti medi consiste al massimo nel dedicarsi ai passatempi di lusso, alle orge a suon di cocaina, alle vacanze lussuose e quant’altro per rimarcare la loro appartenenza a un ceto sociale che li distingua dalla massa amorfa e proletaria. Ma comportandosi così si segna il destino culturale del Paese, purtroppo dominato da una cultura provinciale di livello medio basso, che, guarda caso, viene diffusa a piene mani dai mezzi di comunicazione di massa, che producono molta informazione fatta di pettegolezzi, mentre non producono formazione civica, senso del dovere, senso del sociale, senso della solidarietà, né tantomeno la fratellanza cristiana, mentre tutte queste cose dovrebbero essere l’obiettivo principale di un qualsiasi popolo moderno, civile e provvisto di una socialità superiore. È vero che da noi non mancano gli intellettuali, che si distinguono dalle masse e riescono a distinguersi pure in ambito internazionale sia nel campo delle arti che della scienza e della tecnica, ma sono pressoché senza voce in capitolo, spesso ignorati dai mezzi di comunicazione di massa nazionali, dalla scuola e dal potere ingegnere e dunque pressoché privi di voce; spesso sono isolati dai contesti sociali e dunque frustrati non soltanto in ambito pubblico, ma pure in ambito familiare. Purtroppo, la mediocrità e il provincialismo degli ambienti in cui loro vivono, difendono con le unghie e con i denti la loro mediocrità; così succede che persone di valore siano costrette a emigrare all’estero, dove vengono molto spesso valorizzate, mentre se rimangono in Italia subiscono frustrazioni e umiliazioni tali da farli sentire in colpa o addirittura inferiori, perché incapaci di adattarsi e perché troppo critici verso gli ambienti in cui vivono e lavorano. Ma un paese che frusta a sangue il proprio ceto intellettuale e dove si rinuncia o si impedisce l’apporto del proprio ceto culturale alla vita e al destino della nazione, che impedisce a chi sta al di sopra della media la diffusione del suo sapere, diventa impossibile creare un vero progresso. Fino a quando i migliori sociologi, psicologi, medici, ingegneri, biologi eccetera lasceranno l’Italia costretti ad andare all’estero per poter vivere e il loro numero continuerà a sfiorare le 60-70.000 unità all’anno, senza che da altri paesi ci sia la loro sostituzione, qui non rimarranno altro che provincialismo e mediocrità e il Paese diventerà sempre più marginale nel contesto internazionale. *