Friuli: Driussi e las “peraulis tasudis”


di ROBERTO IACOVISSI

 Anche la poesia di Enzo Driussi, come quella della maggior parte dei poeti friulani di oggi, è sicuramente una poesia sentimentale. Quella di Driussi è una poesia che cerca di rappresentare l’ideale del poeta: un ideale non solo sognato o sperato,ma anche, molte volte, vissuto , reale e presente nella sua storia di uomo, come l’incanto che gli offre la natura con un suo paesaggio o con il brontolio di un temporale o con una nevicata guardata da una finestra con occhi di bambino. Ma ben presto quella realtà che il poeta vorrebbe vivere come ideale svanisce con il richiamo della cattiveria di bimbi che prendono a sassate un gatto o con zampate di uomini che riducono in fango la neve candida, quasi a segnare simbolicamente la cattiveria dell’uomo che uccide ogni innocenza. <br />
Forse la vera chiave di lettura della poesia di Driussi sta tutta nel verbo rubare. «Mi àn robadis les lusignis/ e i miei siums di frut» scrive il poeta. Nel rubare (ma chi ha rubato? Il tempo, gli uomini, la loro invidia, o forse la natura stessa? Chi può rubare i sogni di un bambino?) sta la cesura fra la realtà dell’essere e l’ideale del poeta. Ma la domanda è inutile perché non può avere una risposta accettabile. Perché il bambino, e i suoi sogni con lui, deve perdere l’ingenuità primitiva, la sua verginità di pensiero per diventare uomo, e la realtà di un tempo perduto non può essere vissuta se non fuggendo – come fa il poeta – nella idealità della poesia. Sicuramente anche questa è una ferita che non si può sanare. Quello che il poeta può fare è lenire il dolore con il balsamo dei suoi versi cercando di raccontare a questa umanità di un mondo di poesia che non esiste piú ma che può vivere in un mondo etereo che è un momdo di amore, di pace, di fratellanza. Cosí nel poeta nasce un’altra ferita, perché l’ideale che vorrebbe raccontare al mondo non può raccontarlo, non perché lui non sia poeta, ma perché il mondo non conosce la voce della poesia, non arriva a capirla, non ha ideali se non quelli che la cruda realtà gli presenta.
Allora il poeta si rende conto che la sua poesia resta solamente uno sfogo per vivere, un parlare a se stesso, un monologo esistenziale. Magari è per questo che ha taciuto le sue parole; parole taciute, ma prima pensate, sentite, vissute. Tirarle fuori non deve essere stato facile, ma necessario: per confrontarsi seriamente con il suo vivere lacerato fra realtà e ideale, per trovare una speranza che porti un po’ di luce nella sua esistenza. Che altro può fare un poeta se non aggrapparsi a una fiaba, per vivere? Può farlo, ma alla fine sarà come graffiare uno specchio che rimanda un ghigno rabbioso. Ma tutto, dice il poeta, non è altro che un giro di valzer, il valzer leggero di ogni vita; e per un uomo come Driussi, che di musica e di ballo se ne intende, vuol dire anche non prendersi sul serio con le malinconie e con il malessere. E proprio in questo paradosso del vivere del poeta e dell’uomo che può nascere la convinzione dell’inutilità della stessa poesia («jemplâ pagjnis di sperance/ pal fradi che nol scolte/ pal frut che a l’à fan»), dunque, il poeta non può far altro che scrivere per se stesso? Non credo. Credo piuttosto che con questo paradosso della inutilità della poesia Enzo Driussi abbia voluto gridare il suo invito a guardare la realtà con gli occhi della poesia, a darci il messaggio di speranza che la poesia possa farci ritrovare un mondo che pensavamo perduto. Con la sua poesia ci invita, insomma, ad ascoltare non solo le sue, ma anche le nostre peraulis tasudis.