Friuli: Il lavoro a chiamata è un’ingiustizia sociale


Di Livio Braida, MV di oggi

La rubrica del Messaggero Veneto del 29 luglio riporta un intervento dell’Ordine dei Consulenti del lavoro di Udine sul tema del primato statistico dei voucher del Friuli Venezia Giulia, relativi al “lavoro occasionale accessorio”. Se spostiamo la questione dal piano statistico o da quello del diritto del lavoro, a quello del diritto costituzionale o a quello semplicemente “umano”, la prospettiva tuttavia cambia: dalla celebrazione di un “primato” si passa a quella di un funerale. Infatti un lavoro “occasionale” vuol anche dire fortuito, casuale. Allo stesso modo “accessorio” significa ciò che si accompagna a qualcosa di principale e necessario. Già associare il lavoro ai concetti di “caso” e di “marginale” di per sé mette i brividi  Ma stiamo al dunque. Or bene, se prendiamo il campo dei giovani di cui si parla nell’articolo, studenti in particolare, che durante l’estate possono usufruire dei voucher a 7,50 euro netti per buono, qualcuno potrebbe esprimere soddisfazione. A otto ore il giorno per 5 giorni, un giovane potrebbe guadagnare 300 euro la settimana, che fanno 1200 euro il mese. Se tuttavia il sistema dei voucher si estende agli adulti; se copre ore di “lavoro nero”, come accade di norma con i lavori stagionali (a quanto pare per nulla monitorati, per ammissione degli stessi interessati, riluttanti però a sporgere denuncia, per timore di perdere quel poco che già hanno); se questo stesso sistema significa “lavori a chiamata”, che possono arrivare o no, che possono inchiodarti a lungo nell’ozio a casa, o spremerti in azienda quando servi, in un concentrato di fatica; se tutto questo accade, si può dire che siamo al capolinea della società del lavoro, dunque al suo funerale. Non so se per fortuna o per merito, mi trovo oggi a godere di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ciò è accaduto fin da giovane e mi ha permesso di programmare un minimo la mia vita: relazioni umane, aggiornamento culturale, salute, acquisti, vacanze. Ebbene, malgrado ciò, il declassamento del ceto medio di questi anni ha fatto di noi dei working poors, dei lavoratori poveri. Il nostro stipendio è borderline, alle soglie della povertà relativa: basta un incidente d’auto, un dentista, una qualsiasi spesa d’emergenza a farci precipitare al di sotto di questa soglia, e contare l’ultimo euro per arrivare a fine mese, o impiccarci col consumo a debito. Se ciò è vero per quel che ci riguarda, come possiamo allora valutare i lavoratori a chiamata, quelli stagionali, i precari e così via, quelli di cui oggi tanto si parla, ma per i quali poco si fa? A mio avviso è bene chiamarli per quel che sono: un misero sottoproletariato, dei potenziali homeless, cui solo i sacrifici delle famiglie che li ospitano possono offrire un tetto e una maschera di dignità umana. Il “lavoro a chiamata”, a mio avviso, è una autentica ingiustizia sociale, una vera forma di semischiavitù. Infatti il lavoro non si misura in numeri, non è solo denaro, né deve farci sentire dei tappabuchi: è una attività essenziale non alla sopravvivenza, ma alla vita: è necessaria a creare, a relazionare, a crescere umanamente in una collettività, e a far crescere l’impresa come una seconda famiglia. Come la mettiamo se il lavoro è precario, sottopagato, “a singhiozzo”? Non riuscirò mai, in questo mondo, a realizzare con continuità le mie capacità di homo faber, non coltiverò relazioni umane proficue con i colleghi: soprattutto finirò per disprezzare l’impresa di cui ho bisogno, ma che mi tratta così, come, appunto, qualcosa di “occasionale e accessorio”. Ammettiamo pure che la mia vita sia qualcosa di occasionale, un divenire che non ha né scopo né fine: beh, di certo non accetterei fosse anche accessoria! Siamo nati per essere protagonisti nella nostra vita, non nel senso patetico, che vuole la “società dello spettacolo”, ma per persone che hanno il diritto di realizzarsi nei limiti di quello che possono dare. Ce lo hanno insegnato tutti, dal Cristianesimo, al Liberalismo, al Marxismo. Ora siamo al capolinea: sembra che nemmeno questa possibilità ci sia concessa. Così al telefono aspettiamo qualche elemosina, “occasionale e accessoria”, che prolunghi la nostra agonia.