Friuli: “morte morta e morte viva”, un diverso approccio alla Sanità e alla condivisione del dolore

di Ermes Dorigo.

Se almeno trovassi un verso anche di traverso, fosse pure in-verso, che mi dicesse che non sono perso o che lungo almeno come quanto tutti annodati i versi della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro, potessi attorcigliarmelo al collo. Forse, dopo aver interrotto la sodalità  che ci accomunava dall’adolescenza, dopo aver ben due volte osato guardarla in volto, s’è offesa, l’Avversa, e mi minaccia ed occupa, perversa. Non più bordo nero che orla la vita e le attribuisce significazione ma, smascherata, abisso orrido immenso, che tutto nullifica e tutto percepisci come vanità: falcia sentimenti, progetti, realizzazioni, affezioni, ti rende ansimo, anfanante; invisibile onnipresenza ora ti sottrae la forza che prima ti dava. Eppure l’ho lasciata fare, non mi sono mai ribellato. La prima volta s’è rivelata con dolori indicibili, neri cupi sordi, portandomi a cavalcioni della ringhiera del terrazzo al secondo piano: l’amico freddo m’ha riportato alla coscienza, così ho continuato a contenerla nella sacca del dolore e della sofferenza atroce, che non redimono: chi ha inventato questa baggianata? Redimerti da che? Dal peccato d’essere nato? Ti riducono a livello biologico, privo di pensiero, compresso dal male feroce.

La seconda volta s’è presentata, seduttrice,  come un batuffolo, morbido avvolgente caldo, che invitava a rinvoltolarviti dentro, che avrebbe lasciato fuori di te, per sempre, ogni dolore dallo stomaco pieno di cemento, piacevole stordimento, perdevo lentamente i sensi, beato, improvvisamente senza corpo, mi dissolvevo esausto ma privo di dolore. Non sapevo ch’era Lei né ho tentato alcunché per smascherala, l’ho lasciata fare; eppure deve essersi offesa, perché in realtà c’era in me qualcosa che le resisteva. Permalosa, se l’è presa. Se devo essere sincero, è Lei che ha voluto mostrarsi a me. Sesto piano dell’ospedale, il letto non sorregge il mio corpo, sono fuori della stanza sospeso nell’aria, nuvole e montagne si metamorfizzano in volti, amici o terrificanti, riesco solo a vedere, parola e pensiero vaniti, e vedo un vallone ferrugineo con dei grandi massi grigi, dove anche il silenzio ha paura di se stesso, rinserrato da una cupola nera, anche il vuoto era vuoto, nessuno, io c’ero ma non mi vedevo, forse dietro un masso o polvere in basso o macchia nera nel nero, esistenza d’inesistenza, avvertivo soprattutto l’assenza del tempo, ma il nulla immobile aveva una sua consistenza, ti faceva pesare la tua assenza: se la Morte è assenza di pensiero, ho fatto l’esperienza  dell’essere più mai.

Ma il corpo respirava ancora: vivevo da morto o ero un morto spirante. Bionda, si mimetizza, seduta accanto a me, il mio letto era rientrato nella stanza, sensuale e materna, la dottoressa mi diceva che l’operazione era riuscita male e che sarei dovuto tornare sotto i ferri, ancora una volta in macelleria, spelato e legato come un pollo spennato: l’avrei rivista per la terza volta? Ormai mi si era affezionata. La morfina mi permise solo di assentire con un sorriso ebete. Un barlume di comprensione era tornato, ma non il pensare e neppure la parola. Dominava la visione. Non sentivo dolore. Rivedevo il pianto disperato di mia moglie: soffre più del malato chi gli sta accanto impotente: non vale il cuore col dolore, pompa solo sofferenza e disperazione nelle arterie: i dannati di Dante sono tali, non per una pena specifica, ma perché disperati, il dolore non ha speranza di morte. Rivedevo mia madre, che accudiva giorno dopo giorno consumata mio padre nella sua estenuante agonia, impotente; la cachessia invece me l’ero impressa io, a lei, almeno quella, l’avevo risparmiata. Ora la visione mi portava tra i ricoverati in oncologia, alla corrosione lenta dei parenti e alla consunzione dei malati, spesso colpevolizzati: improduttivi e costosi – Dottore, posso suicidarmi così lei non sfora il suo budget?! -, un fastidio per molti congiunti, parenti serpenti, soli, abbrancati ai secondi o assenti, furenti, rassegnati, terrorizzati dall’ombra nera, che li conforta di redenzione nell’al di là: la Morte non si sporca le mani, manda i suoi becchini ai tumorati da dio. Ma il dolore, l’abiezione stanno tutti al di qua irredimibili e senza significato, perché la sofferenza non ha un senso: è, mortifica, offende la tua dignità, non sei più umano ma cavia men che animale di qualche dio criminale, deturpa anche e spesso dentro: in certi occhi spenti lampeggiava solo l’odio per i sani, o intorno al malato il pietismo ostentato: gli uomini, scriveva Machiavelli, sdimenticano prima la morte del padre che la perdita del patrimonio. La malattia ti riduce ai tempi della defecazione, dura o liquida?, scura o chiara?, alla puzza d’urina nel pappagallo (povero colorato pennuto), alla puzza della bile che traspira anche dalla sacca del drenaggio che la contiene o che fuoriesce gialla, putrida e puzzolente sul pigiama, sulle lenzuola, sul materasso: acre e oleosa s’annida nelle narici, o nella narice non intubata,  anche da quel sondino esce materia putrescente, che si raccoglie nella sacca cloaca, anch’essa  infestante; nel vuoto mentale, mi parlano i versi di una ‘sepolcrale’ leopardiana: Natura umana, or come,/ se frale in tutto e vile,/ se polve ed ombra sei, tant’alto senti? (tutte le nostre belle costruzioni artistiche e intellettuali  nascono dal nostro liquame?); l’ago centrale nella iugulare o nella succlavia, si dipartono fili fino alle flebo, sei appiccicato in una ragnatela, movimenti, quando puoi permetterteli, circospetti e faticosi, e dolorosi se compi uno sforzo eccessivo, appiattito e confuso col materasso, in balia di tutti, che ti palpano, ti aprono a freddo con un ferro un foro di drenaggio otturato, ti cuciono così, ti spuntano così, ti lavano così, ti palpano così: e tu sei lì, che vedi e senti, ma non pensi, solo frammenti, anche quando parli con i parenti, senti le loro parole lontane, e quando non sono presenti o assenti, non ti senti nemmeno solo, perché non sei un soggetto, ma un oggetto e gli oggetti non soffrono di solitudine; soffrono e basta, d’una sofferenza se non fisica psichica totale, obnubilante, ottundente, grigia; attraverso la finestra il paesaggio è rigidamente grigio: Lei s’è portata via per sempre la primavera.

Qualche fiore ancora, in questo grigio, resiste: la moglie i figli gli amici, ma come lontani, come se già, inconsapevolmente e senza malizia, cercassero, nei loro colloqui ai piedi del letto, di colmare un vuoto, escludendoti. Certe visite sono per il malato peggiori della malattia; Lei non è cattiva, è tale fatalmente così, gli uomini sono cattivi: spiritosi mentre boccheggi scheletrico, per tirarti su, tirar su qualcosa che non c’è che possa reggersi, ipocriti felici di vederti prostrato e impotente, finalmente, la rivalsa del frustrato, lo spione per i compari d’osteria, il padrone di casa preoccupato: se muore, come posso dare la disdetta del contratto d’affitto a una vedova e due orfani: in quei momenti apprezzi il niente, la tua assenza e inesistenza. La malattia ti sottrae forzosamente dalle relazioni affettive e sociali e, se protratta, si perpetua anche dopo la guarigione per la difficoltà di reinserzione. Ti senti quasi scancellato, come scansato, vissuto come un intruso o come un appestato, da cui stare lontano, ma non doveva morire? come mai ha ancora i capelli? Lentamente riprendi le tue abitudini e ripeti le azioni consuete, apparentemente come prima, ma Lei ormai ti possiede totalmente e te lo ricorda costantemente con la morte di amici, e violentemente con la morte di tua madre. Quanto l’ho pianta! Forse ho pianto la perdita della mia identità di figlio, che se ne andava con lei col mio romanzo nella sua bara. Ma ho pianto lei oppure ho pianto me stesso, il morto cosciente? Oppure  ho pianto lo sfregio della morte che aveva bruttato la mia bella corvina? E’ morta d’estate, ma io sentivo freddo, sento sempre freddo, soffro il freddo: non dovrei; è Lei, amante ripudiata, che non si rassegna alla separazione e allora si vendica, col freddo, con l’ansia, con l’affanno, con paure che non conoscevo, e tanto più si accanisce quanto meno la temi, più l’allontani più ti penetra dentro; adesso è posata sulla spalla sinistra, La sento, che controlla quanto scrivo, e mi fa aumentare gli acidi gastrici, insalina la bocca, fa dolere le cuciture interne ed esterne, vorrebbe di nuovo ridurmi a oggetto biologico, impedirmi di pensare: la scrittura è sua nemica e nulla può fare… Il medico saccente: è ormai evidente il rapporto tra psiche e soma: con la volontà di vivere si può anche sconfiggere la malattia: ma se mi hai quasi condannato a morte, mona! – Tanto, prima o poi tutti dobbiamo andare! – Ma vai avanti prima tu, cretino! Tu sei una soma, somaro che potevi evitarmi quasi tutta questa esperienza!- Lo sai che contro la soma del cromosoma non si ragiona? E tra morte morta e morte viva, che rapporto c’è? – Se n’è andato senza rispondere, mortificato, il capiscione… Ho ripreso tutte le mie occupazioni, con la nuova identità: Psicoloseso da Cagot, mica sono stato operato al cervello, che funziona anche meglio: sarà per le passate paure.

Dopo la malattia ho compreso cosa significa veramente essere sano. Però, il fatto che, comunque, sei a rischio La alimenta e Lei notrica un perverso, pur se circoscritto, senso comune, per cui non sei più affidabile, meglio non contare su di te: un viscido, strisciante processo di esclusione ed emarginazione, che percepisci con tristezza o con rabbia, quando i tuoi avversari sghignazzano al tuo passaggio: solo alla cattiveria non ci sono limiti. Ma il fastidio più penetrante è sempre Lei: non ti impedisce di fare, non ti toglie entusiasmi, ti dissolve ogni soddisfazione, vanifica tutto, ma non è un nulla nulla che sarebbe bello ma un nulla pieno di niente, come una bambina capricciosa distrugge i tuoi giocattoli, vuole convincerti che tutto è niente, l’amore della gente, la felicità della mente, il sorriso dell’adolescente che aiuti a crescere, un volto splendente; solecchia e rende il sole nero, la luna sanguigna, ti segna davanti ai piedi quando cammini la linea della fine, si frappone negli affetti e li rende distanti e freddi, priva di senso quello che hai fatto, t’imbozzola nell’insignificanza, dipinge il mondo d’indifferenza, innalza pareti di vuoto e distanza tra te e la realtà, tra te e te, deprivato di proiezioni, sogni, desideri, vorrebbe sottrarti i pensieri, che però difendi nei tuoi manieri, s’incarognisce e s’accanisce ancora sul corpo, ti vorrebbe inerte, inarte, inutile; ecco, questo ti annichilisce, il senso di inutilità di cui ti senti pervaso. Il dolore della malattia fisica si perpetua dopo, come una tenia, come sofferenza psichica, continua, innervata nella carne e nella solitudine, perché a liberati di questa nessuno può, tanto meno gli antidepressivi in pastiglie o in preghiere: Dio non c’è e se c’era se n’è andato da tempo da questo mondo, un Arimane Re delle cose autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma intelligenza, / eterno dator dei mali, abbandonandoci nel dolore e tra le ingiustizie e lasciandoci come compagna una mimetica Meretrice, però morale, che ti lascia sognare solo il tuo funerale; in fin dei conti è bello guardare il mondo da una bara, ripercorri la tua vita attraverso i volti di chi ti viene a salutare e t’augura un buon trasloco; volti che sono legati e portano con sé ricordi, il bene e il male che hai fatto, il tanto che hai ricevuto e il poco che hai dato, le sofferenze e le gioie che hai provato e procurato, il vuoto o il pieno che hai lasciato, Lei che ti illustra tutto il passato, gentile anche, perché è un giorno di sole fresco e d’aria brillante di colori, ma non è oggi, è domani, autunno: forse ti aiuta solo a cogliere le bellezze del domani, della vecchiezza che timidamente bussa alla porte, a vincere le tue paure storte. Allora, un brindisi alla Morte, di nuovo  bordo nero che orla la vita e le attribuisce una nuova significazione, non di adolescente illusione ma di inquieta aspettazione. Courage!