Friuli: perchè dire “stato di minima coscienza” non equivale a “stato vegetativo”

di di Giuliano Buttazzoni, Cinzia Gori e Luca Tosolini
soci dell’associazione «Per Eluana: liberi di scegliere».”

Molto è stato scritto sul caso Eluana Englaro, e va bene, fa parte della dialettica democratica; troppo è stato scritto cercando di trasferire al proprio tornaconto ideologico situazioni che dovrebbero restare private e personali. La lettera aperta del signo Fontanini (presidente della Provincia di Udine) sembrerebbe ricadere in quest’ultima casistica. Innanzitutto ancora una volta si cerca di confondere i dati medici: si fa leva sulla poca conoscenza dell’argomento specifico per mescolare stati di minima coscienza e disabilità, con gli stati vegetativi permanenti (situazione in cui si trovava Eluana Englaro da 17 anni come anche confermato dagli esami autoptici). Mescolare questi elementi significa (volutamente) passare dall’accanimento terapeutico all’ipotesi di omicidio (e non è poco), travisando le eventuali volontà dell’assistito e compromettendo la professionalità e competenza di chi assiste. Più che “non confondere i piani” bisognerebbe innanzitutto non confondere i termini. Basta fare una rapida indagine su Internet per capire che la comunità scientifica internazionale adotta ancora oggi la distinzione tra i due “stati” – “minima coscienza” e “vegetativo permanente” – nonostante l’enorme impegno negli ultimi anni dell’on. Roccella, supportata dal suo team di “neurologi luminari”, di abolire la definizione di stato vegetativo e sostituirla con stato di minima coscienza, come se, cessando di nominare i gatti, i gatti cessino anche di esistere. E ancora: i friulani che amano la vita… i friulani hanno dimostrato negli anni di essere per la libertà, sempre e comunque, dalle battaglie sul divorzio, sino a quelle attuali sul testamento biologico; i cittadini che hanno chiesto di poter depositare o hanno depositato le proprie disposizioni sul fine vita, hanno peso numerico da far invidia alle grandi metropoli italiane… è solo una questione di libertà, nessun obbligo: ognuno può scegliere in base ai propri convincimenti culturali, religiosi ed etici. In questi casi, spesso drammatici e molto personali, una politica laica e democratica dovrebbe solo agevolare le possibilità di tutti, quindi senza imporre scelte precostituite, ma garantire la libertà di scelta. È questo l’apartheid di cui scrive Fontanini? Riguardo alle pesanti illazioni circa la “vita non degna di essere vissuta” e che “sarebbe da eliminare, da staccare”, queste sono ovviamente interpretazioni personali di Fontanini, che si lascia andare a un populismo di bassa “Lega”, con affermazioni in chiave retorica e terrorizzante sullo staccare spine che nessuno in realtà vuole staccare, fino all’assurdo di asserire che potremmo andare incontro a una “pericolosissima deriva”, l’“eliminazione fisica” quale apocalittico futuro degli sventurati “cari Friulani”. Non contento, per i “cari Friulani che amano la vita” prevede futuri sviluppi di “turismo delle spine staccate” visto che il nostro turismo friulano forse stenta a decollare, e si appresta anche a riportare a galla storie di denunce, minacce, intimidazioni e allontanamenti da posti di lavoro per poi accusare altri di non voler far silenzio. Poi la questione del film di Bellocchio, fatto passare da Fontanini per un film ideologico sul caso Eluana, mentre tale caso fa solo da sfondo ad altre storie. Bellocchio ha già chiarito quali sono state le sue ispirazioni e cosa ha voluto raccontare. Comunque, citando il senatore Saro, i finanziamenti in Fvg non sono mai avvenuti con discriminanti ideologiche, ma cercando di privilegiare opere di culture e sensibilità diverse e dando, piuttosto, un approccio pragmatico sulle ricadute economiche. Giustamente, si chiede Saro, cosa accadrebbe se nelle prossime settimane, dopo un eventuale rimpinguamento del capitolo, dovesse essere finanziato il film su Marco d’Aviano, tanto caro alla Lega? Finanzieremo film solo graditi alla Giunta di turno? Fontanini arriva al dunque illuminandoci sui “retroscena del caso Bellocchio” e spiegandoci perché “certe produzioni non facciano il bene del Friuli”, una (inconsapevole, e perciò doppiamente risibile) riesumazione del monito censorio di quei “panni sporchi che si lavano in casa”, rivolto da Andreotti negli anni ’50 a un capolavoro del neorealismo italiano. Si nota una disarmante ignoranza della filmografia internazionale. Non ultimo “Mare Dentro” (2004) di Amenàbar, di cui approfittiamo per consigliare la visione a chi non l’abbia ancora visto. Tutti questi film trattano lo stesso argomento: il rapporto dell’uomo con la morte, o, meglio, con le nuove circostanze del morire. Storie e situazioni diverse, ma un identico risultato: il primato della autodeterminazione e della libertà di scelta delle persone alla fine della vita. Negli anni nessuno si è mai scandalizzato di fronte alla crudezza dei temi trattati. Al contrario. Film e registi sono stati premiati e acclamati in tutto il mondo. Ebbene questi registi, in tempi ancora non sospetti, non hanno fatto altro che trattare storie di vita molto simili al caso Englaro. Oggi, solo perché uno dei maggiori registi italiani si permette di affrontare anche lui il tema,la cosa fa così scalpore da indurre a scomodarsi politici e presidenti di Provincia, che si sbizzariscono con commenti fuori luogo sui “cari Friulani” sui quali biechi registi e occulti “cultori di morte” starebbero meditando per la loro “eliminazione fisica”! Noi siamo un gruppo di soci dell’associazione Per Eluana, e in questi anni non ci siamo prestati a intervenire e rispondere a provocazioni gratuite piovute da ogni parte. Abbiamo portato aventi numerosi incontri per informare le persone sui loro diritti in nome della libertà di scelta e della Costituzione che Fontanini richiama, ma che evidentemente non conosce. Sperando che non sia negata anche a noi libertà di espressione, notiamo con piacere che i “cari Friulani”, nel sondaggio del Messaggero Veneto, a fronte dell’accorato appello di Fontanini, hanno espresso un parere del tutto difforme da quello del Presidente della Provincia.

Una risposta a “Friuli: perchè dire “stato di minima coscienza” non equivale a “stato vegetativo””

  1. ermes dorigo
    SULLA MALATTIA E LA MORTE

    Se è la morte che inseguo
    che allo scoperto la veda
    e più decisamente la rincorra
    e non invece che disperato e cieco conceda
    altro tempo al mio stesso dolore.

    (P. Volponi, Allegoria)

    Se almeno trovassi un verso anche di traverso, fosse pure in-verso, che mi dicesse che non sono perso o che lungo almeno come quanto tutti annodati i versi della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro, potessi attorcigliarmelo al collo. Forse, dopo aver interrotto la sodalità che ci accomunava dall’adolescenza, dopo aver ben due volte osato guardarla in volto, s’è offesa, l’Avversa, e mi minaccia ed occupa, perversa. Non più bordo nero che orla la vita e le attribuisce significazione ma, smascherata, abisso orrido immenso, che tutto nullifica e tutto percepisci come vanità: falcia sentimenti, progetti, realizzazioni, affezioni, ti rende ansimo, anfanante; invisibile onnipresenza ora ti sottrae la forza che prima ti dava. Eppure l’ho lasciata fare, non mi sono mai ribellato. La prima volta s’è rivelata con dolori indicibili, neri cupi sordi, portandomi a cavalcioni della ringhiera del terrazzo al secondo piano: l’amico freddo m’ha riportato alla coscienza, così ho continuato a contenerla nella sacca del dolore e della sofferenza atroce, che non redimono: chi ha inventato questa baggianata? Redimerti da che? Dal peccato d’essere nato? Ti riducono a livello biologico, privo di pensiero, compresso dal male feroce.
    La seconda volta s’è presentata, seduttrice, come un batuffolo, morbido avvolgente caldo, che invitava a rinvoltolarviti dentro, che avrebbe lasciato fuori di te, per sempre, ogni dolore dallo stomaco pieno di cemento, piacevole stordimento, perdevo lentamente i sensi, beato, improvvisamente senza corpo, mi dissolvevo esausto ma privo di dolore. Non sapevo ch’era Lei né ho tentato alcunché per smascherala, l’ho lasciata fare; eppure deve essersi offesa, perché in realtà c’era in me qualcosa che le resisteva. Permalosa, se l’è presa. Se devo essere sincero, è Lei che ha voluto mostrarsi a me. Sesto piano dell’ospedale, il letto non sorregge il mio corpo, sono fuori della stanza sospeso nell’aria, nuvole e montagne si metamorfizzano in volti, amici o terrificanti, riesco solo a vedere, parola e pensiero vaniti, e vedo un vallone ferrugineo con dei grandi massi grigi, dove anche il silenzio ha paura di se stesso, rinserrato da una cupola nera, anche il vuoto era vuoto, nessuno, io c’ero ma non mi vedevo, forse dietro un masso o polvere in basso o macchia nera nel nero, esistenza d’inesistenza, avvertivo soprattutto l’assenza del tempo, ma il nulla immobile aveva una sua consistenza, ti faceva pesare la tua assenza: se la Morte è assenza di pensiero, ho fatto l’esperienza dell’essere più mai.
    Ma il corpo respirava ancora: vivevo da morto o ero un morto spirante. Bionda, si mimetizza, seduta accanto a me, il mio letto era rientrato nella stanza, sensuale e materna, la dottoressa mi diceva che l’operazione era riuscita male e che sarei dovuto tornare sotto i ferri, ancora una volta in macelleria, spelato e legato come un pollo spennato: l’avrei rivista per la terza volta? Ormai mi si era affezionata. La morfina mi permise solo di assentire con un sorriso ebete. Un barlume di comprensione era tornato, ma non il pensare e neppure la parola. Dominava la visione. Non sentivo dolore. Rivedevo il pianto disperato di mia moglie: soffre più del malato chi gli sta accanto impotente: non vale il cuore col dolore, pompa solo sofferenza e disperazione nelle arterie: i dannati di Dante sono tali, non per una pena specifica, ma perché disperati, il dolore non ha speranza di morte. Rivedevo mia madre, che accudiva giorno dopo giorno consumata mio padre nella sua estenuante agonia, impotente; la cachessia invece me l’ero impressa io, a lei, almeno quella, l’avevo risparmiata. Ora la visione mi portava tra i ricoverati in oncologia, alla corrosione lenta dei parenti e alla consunzione dei malati, spesso colpevolizzati: improduttivi e costosi – Dottore, posso suicidarmi così lei non sfora il suo budget?! -, un fastidio per molti congiunti, parenti serpenti, soli, abbrancati ai secondi o assenti, furenti, rassegnati, terrorizzati dall’ombra nera, che li conforta di redenzione nell’al di là: la Morte non si sporca le mani, manda i suoi becchini ai tumorati da dio. Ma il dolore, l’abiezione stanno tutti al di qua irredimibili e senza significato, perché la sofferenza non ha un senso: è, mortifica, offende la tua dignità, non sei più umano ma cavia men che animale di qualche dio criminale, deturpa anche e spesso dentro: in certi occhi spenti lampeggiava solo l’odio per i sani, o intorno al malato il pietismo ostentato: gli uomini, scriveva Machiavelli, sdimenticano prima la morte del padre che la perdita del patrimonio. La malattia ti riduce ai tempi della defecazione, dura o liquida?, scura o chiara?, alla puzza d’urina nel pappagallo (povero colorato pennuto), alla puzza della bile che traspira anche dalla sacca del drenaggio che la contiene o che fuoriesce gialla, putrida e puzzolente sul pigiama, sulle lenzuola, sul materasso: acre e oleosa s’annida nelle narici, o nella narice non intubata, anche da quel sondino esce materia putrescente, che si raccoglie nella sacca cloaca, anch’essa infestante; nel vuoto mentale, mi parlano i versi di una ‘sepolcrale’ leopardiana: Natura umana, or come,/ se frale in tutto e vile,/ se polve ed ombra sei, tant’alto senti? (tutte le nostre belle costruzioni artistiche e intellettuali nascono dal nostro liquame?); l’ago centrale nella iugulare o nella succlavia, si dipartono fili fino alle flebo, sei appiccicato in una ragnatela, movimenti, quando puoi permetterteli, circospetti e faticosi, e dolorosi se compi uno sforzo eccessivo, appiattito e confuso col materasso, in balia di tutti, che ti palpano, ti aprono a freddo con un ferro un foro di drenaggio otturato, ti cuciono così, ti spuntano così, ti lavano così, ti palpano così: e tu sei lì, che vedi e senti, ma non pensi, solo frammenti, anche quando parli con i parenti, senti le loro parole lontane, e quando non sono presenti o assenti, non ti senti nemmeno solo, perché non sei un soggetto, ma un oggetto e gli oggetti non soffrono di solitudine; soffrono e basta, d’una sofferenza se non fisica psichica totale, obnubilante, ottundente, grigia; attraverso la finestra il paesaggio è rigidamente grigio: Lei s’è portata via per sempre la primavera.
    Qualche fiore ancora, in questo grigio, resiste: la moglie i figli gli amici, ma come lontani, come se già, inconsapevolmente e senza malizia, cercassero, nei loro colloqui ai piedi del letto, di colmare un vuoto, escludendoti. Certe visite sono per il malato peggiori della malattia; Lei non è cattiva, è tale fatalmente così, gli uomini sono cattivi: spiritosi mentre boccheggi scheletrico, per tirarti su, tirar su qualcosa che non c’è che possa reggersi, ipocriti felici di vederti prostrato e impotente, finalmente, la rivalsa del frustrato, lo spione per i compari d’osteria, il padrone di casa preoccupato: se muore, come posso dare la disdetta del contratto d’affitto a una vedova e due orfani: in quei momenti apprezzi il niente, la tua assenza e inesistenza. La malattia ti sottrae forzosamente dalle relazioni affettive e sociali e, se protratta, si perpetua anche dopo la guarigione per la difficoltà di reinserzione. Ti senti quasi scancellato, come scansato, vissuto come un intruso o come un appestato, da cui stare lontano, ma non doveva morire? come mai ha ancora i capelli? Lentamente riprendi le tue abitudini e ripeti le azioni consuete, apparentemente come prima, ma Lei ormai ti possiede totalmente e te lo ricorda costantemente con la morte di amici, e violentemente con la morte di tua madre. Quanto l’ho pianta! Forse ho pianto la perdita della mia identità di figlio, che se ne andava con lei col mio romanzo nella sua bara. Ma ho pianto lei oppure ho pianto me stesso, il morto cosciente? Oppure ho pianto lo sfregio della morte che aveva bruttato la mia bella corvina? E’ morta d’estate, ma io sentivo freddo, sento sempre freddo, soffro il freddo: non dovrei; è Lei, amante ripudiata, che non si rassegna alla separazione e allora si vendica, col freddo, con l’ansia, con l’affanno, con paure che non conoscevo, e tanto più si accanisce quanto meno la temi, più l’allontani più ti penetra dentro; adesso è posata sulla spalla sinistra, La sento, che controlla quanto scrivo, e mi fa aumentare gli acidi gastrici, insalina la bocca, fa dolere le cuciture interne ed esterne, vorrebbe di nuovo ridurmi a oggetto biologico, impedirmi di pensare: la scrittura è sua nemica e nulla può fare… Il medico saccente: è ormai evidente il rapporto tra psiche e soma: con la volontà di vivere si può anche sconfiggere la malattia: ma se mi hai quasi condannato a morte, mona! – Tanto, prima o poi tutti dobbiamo andare! – Ma vai avanti prima tu, cretino! Tu sei una soma, somaro che potevi evitarmi quasi tutta questa esperienza!- Lo sai che contro la soma del cromosoma non si ragiona? E tra morte morta e morte viva, che rapporto c’è? – Se n’è andato senza rispondere, mortificato, il capiscione… Ho ripreso tutte le mie occupazioni, con la nuova identità: Psicoloseso da Cagot, mica sono stato operato al cervello, che funziona anche meglio: sarà per le passate paure.
    Dopo la malattia ho compreso cosa significa veramente essere sano. Però, il fatto che, comunque, sei a rischio La alimenta e Lei notrica un perverso, pur se circoscritto, senso comune, per cui non sei più affidabile, meglio non contare su di te: un viscido, strisciante processo di esclusione ed emarginazione, che percepisci con tristezza o con rabbia, quando i tuoi avversari sghignazzano al tuo passaggio: solo alla cattiveria non ci sono limiti. Ma il fastidio più penetrante è sempre Lei: non ti impedisce di fare, non ti toglie entusiasmi, ti dissolve ogni soddisfazione, vanifica tutto, ma non è un nulla nulla che sarebbe bello ma un nulla pieno di niente, come una bambina capricciosa distrugge i tuoi giocattoli, vuole convincerti che tutto è niente, l’amore della gente, la felicità della mente, il sorriso dell’adolescente che aiuti a crescere, un volto splendente; solecchia e rende il sole nero, la luna sanguigna, ti segna davanti ai piedi quando cammini la linea della fine, si frappone negli affetti e li rende distanti e freddi, priva di senso quello che hai fatto, t’imbozzola nell’insignificanza, dipinge il mondo d’indifferenza, innalza pareti di vuoto e distanza tra te e la realtà, tra te e te, deprivato di proiezioni, sogni, desideri, vorrebbe sottrarti i pensieri, che però difendi nei tuoi manieri, s’incarognisce e s’accanisce ancora sul corpo, ti vorrebbe inerte, inarte, inutile; ecco, questo ti annichilisce, il senso di inutilità di cui ti senti pervaso. Il dolore della malattia fisica si perpetua dopo, come una tenia, come sofferenza psichica, continua, innervata nella carne e nella solitudine, perché a liberati di questa nessuno può, tanto meno gli antidepressivi in pastiglie o in preghiere: Dio non c’è e se c’era se n’è andato da tempo da questo mondo, un Arimane Re delle cose autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma intelligenza, / eterno dator dei mali, abbandonandoci nel dolore e tra le ingiustizie e lasciandoci come compagna una mimetica Meretrice, però morale, che ti lascia sognare solo il tuo funerale; in fin dei conti è bello guardare il mondo da una bara, ripercorri la tua vita attraverso i volti di chi ti viene a salutare e t’augura un buon trasloco; volti che sono legati e portano con sé ricordi, il bene e il male che hai fatto, il tanto che hai ricevuto e il poco che hai dato, le sofferenze e le gioie che hai provato e procurato, il vuoto o il pieno che hai lasciato, Lei che ti illustra tutto il passato, gentile anche, perché è un giorno di sole fresco e d’aria brillante di colori, ma non è oggi, è domani, autunno: forse ti aiuta solo a cogliere le bellezze del domani, della vecchiezza che timidamente bussa alla porte, a vincere le tue paure storte. Allora, un brindisi alla Morte, di nuovo bordo nero che orla la vita e le attribuisce una nuova significazione, non di adolescente illusione ma di inquieta aspettazione. Courage!

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