Illegio: lascia il posto di perito metalmeccanico per dedicarsi a mais e ortaggi

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di GIUSEPPE RAGOGNA.
Non è stato un gioco da ragazzi assemblare un puzzle di terreni. Marco Zozzoli ha portato a termine un’operazione complicatissima. Ora ride soddisfatto, senza dare più di tanto peso a una faticaccia durata un paio d’anni: «Ho nel cassetto più di cento contratti di comodato d’uso gratuito di piccoli appezzamenti, alcuni sono micro-superfici di poco più di una decina di metri quadrati. In molti casi c’è stata la necessità di contattare proprietari in giro per il mondo». È riuscito così a mettere assieme all’incirca quattro ettari di terreno per dare concretezza al sogno della vita: creare degli orti ricchi di biodiversità tutt’attorno a Illegio, che è una gemma di bellezza tra i monti della Carnia, a una manciata di chilometri da Tolmezzo. È il paese degli antichi mulini di pietra, che si affacciano lungo il rio Touf, con le grandi ruote spinte dall’acqua. Un luogo d’altri tempi, che si ravviva soprattutto d’estate in occasione di mostre d’arte di prestigio. Di anno in anno, si alternano esposizioni di capolavori di assoluto valore che attirano, in un borgo che non raggiunge le 400 anime, più di 40 mila visitatori. Pitture cariche di emozioni, come lo sono i paesaggi di Illegio.La svolta della vita. Marco Zozzoli ha ventott’anni. Ha saputo costruire dalla passione per la terra, che è nata accompagnando il nonno Carlo nei campi, una specie di “officina della biodiversità”, dove studia, sperimenta e coltiva varietà diverse di mais, di ortaggi, di verdure e di legumi. L’officina, quella vera, l’ha lasciata davvero, dando un calcio a un posto fisso che durava da almeno tre anni, da quando si era diplomato perito metalmeccanico all’Ipsia di Tolmezzo: «Inutile insistere, era troppo forte il richiamo dell’agricoltura. Capita che nell’adolescenza si facciano delle scelte scolastiche non finalizzate agli obiettivi che via via maturano con l’età. L’attrazione fatale era per i motori, ma nell’esercizio del mestiere non li ho mai visti. Il mio ruolo era infatti quello di programmatore». L’orizzonte è la Natura con le sue fasi e le sue regole. Da curioso com’è, si era messo a smanettare su Internet per apprendere ogni tecnica, che poi applicava nei terreni che pian piano entravano nella sua disponibilità. Tre anni fa la svolta. Ha frequentato i corsi per aprire l’attività agricola. Oggi ha un’aziendina, il cui nome mette assieme la specializzazione dell’impresa con la caratteristica del paese: Il Vecjo Mulin, dove la prima parola richiama i semi antichi usati nei campi, e la seconda si riferisce alla strada principale di Illegio dominata dai mulini. Non ha scelto però un percorso qualsiasi. Ci sono infatti vari modi di “fare agricoltura”. La frequentazione della Rete gli ha spalancato nuovi orizzonti. «Di giorno sui campi, di sera davanti al computer. Marco è un ragazzo cocciuto – mormora nonna Alda, che ha voluto assistere alla lunga chiacchierata -, guarda i cavoli anziché le ragazze. È un grande lavoratore, ma a modo suo: ha soltanto le piante in testa. Pensi che uno dei suoi clienti, un responsabile della Cartiera Burgo, l’aveva corteggiato per portarlo in azienda. Niente da fare, ha dato un altro calcio al posto sicuro. Ai giorni d’oggi… mah».Metodi rigorosamente naturali. Il nipote non raccoglie le provocazioni, si schermisce, sorride e prende la forza per introdurre un lungo ragionamento sull’agricoltura sinergica. Dedica l’incipit alla visione etica, non soltanto pratica, dei due pionieri che hanno applicato concretamente alcune teorie: l’agricoltrice spagnola Emilia Hazelip, la quale ha adattato al clima mediterraneo i principi del microbiologo giapponese Masanobu Fukuoka. Marco, prima si accerta che sui fogli degli appunti siano stati scritti correttamente i nomi, poi passa a una sintesi di questo sistema alternativo di coltivazione. «Sul campo – avverte – non si fa quasi niente, occorre l’umiltà di capire la Natura, poi si arrangia la terra a far crescere i frutti». E scandisce gli elementi principali del sistema sinergico: nessuna lavorazione del suolo, se non nella fase di avvio per riassestare il terreno; nessun concime chimico; neanche prendere in considerazione diserbanti o fitofarmaci; attenzione scrupolosa delle fasi lunari e del ritmo delle stagioni; rotazione tra alcune specie di ortaggi e di verdure. «Il terreno trova nel tempo il suo equilibrio naturale. Alla fine conta soprattutto la qualità del prodotto – spiega – che garantisce profumi e sapori. Che sia chiaro: non mi interessa raccogliere quantità sproporzionate di frutti. La terra ha tutti gli elementi per lavorare da sola. E le piante si adattano. Ciò che conta è invece il rispetto di valori vitali: noi nelle campagne siamo degli intrusi, al massimo degli ospiti. L’uomo fa soltanto danni, rischia di coltivare campi di plastica. Ecco, allora, che non dobbiamo stravolgere l’ordine prestabilito, perché dopo di noi arriveranno altre generazioni». Di tanto in tanto, alla spiegazione, arricchita dai risultati concreti di esperienze intriganti, Marco intercala una serie di critiche severe alle multinazionali, «che fanno soltanto i loro interessi seguendo logiche industriali e commerciali». E non si ferma più: «Per seguire soltanto il mercato si arriva all’impazzimento. Un esempio lo si trova nelle vigne: hanno dato finanziamenti per lo sradicamento dei vecchi vigneti soltanto per assecondare le mode, così hanno devastato tutto e ora si ributtano al ripristino delle viti di una volta, perché garantivano vino buono. Così si finisce per diventare dipendenti da sistemi che c’entrano poco con la vita dei campi».La bio-valley di Illegio. Marco Zozzoli sta creando il suo piccolo “regno delle biodiversità” procedendo attraverso sperimentazioni che assicurano un insieme di macchie di colori e di forme non comuni. Ha cominciato con la raccolta di vecchie sementi di mais, di legumi e di altri ortaggi ascoltando i racconti degli anziani del posto: «Alcuni mi hanno portato i loro sacchettini con i semi che hanno fatto la storia locale. Ho dato spazio soprattutto al sorc di Dieç, un misto di mais giallo e rosso di Illegio (Dieç, in friulano). Ne faccio farina per polenta e pane, con trattamento in un mulino che utilizza una macina di pietra». La novità è l’introduzione di un tipo particolare di mais, chiamato “gemma di vetro”, i cui chicchi rappresentano una gamma amplissima di colori. È il prodotto assolutamente naturale di una serie di incroci di pannocchie diverse. La provenienza è americana, il risultato è un valzer cromatico: «È la pianta che crea più curiosità nei mercatini che settimanalmente frequento. Ho un cliente vegano che viene appositamente da Verona per comprare il mio mais. Non riesco più a far fronte alle richieste. Pian piano raddoppierò la produzione, destinando a questo tipo di coltivazione un ettaro di terreno». In realtà, il giovane agricoltore ha fatto della biodiversità il suo mantra. L’investimento riguarda varietà diverse per ogni specie, «perché la biodiversità è ricchezza, in quanto proietta la storia nel futuro, adattando meglio le piante al clima e al suolo di un determinato territorio». Nei suoi semenzai c’è di tutto. La lista dei nomi è molto lunga. Comprende varie tipologie di pomodori, cetrioli, spinaci, peperoni, fagioli, fagiolini, cavoli, cipolle, patate, barbabietole, zucche, carote. Si tratta di un centinaio abbondante di nomi che non si ripetono mai, perché danno vita a “pezzi unici”. La vendita avviene soprattutto come prodotti freschi. Soltanto una piccola parte è lavorata nei laboratori di un paio di ditte, a Lestans e Tarcento, per ricavarne conserve, sottoli e sottaceti. A a conclusione della conversazione, Marco cala il suo asso: lo zigolo dolce, che è una specie di mandorla di terra (un piccolo tubero) prodotta da una pianta erbacea. «È una coltivazione in via sperimentale che mi occupa d’inverno, perché durante l’anno non potrei permettermi di sbrigare la mole di lavoro, tra pulizia dalla terra ed essiccazione. Un lavoraccio che alza il prezzo a quasi 30 euro il chilo. Ma la produzione, molto richiesta dai celiaci, va via bruciata». La frenesia del giovane coltivatore richiama quella di un navigato collezionista di francobolli. Acquista, o dà vita a scambi, attraverso i rapporti che intrattiene con singoli produttori e con alcune associazioni specializzate nella raccolta e nella riproduzione di particolari sementi in via di estinzione. Alimenta così coltivazioni di nicchia che sono da tempo estromesse dalle grandi catene commerciali, le quali hanno imposto la standardizzazione delle proposte, financo dei sapori. «Siamo dentro la morsa di una grande omologazione – conclude Marco – che ridimensiona la biodiversità. Le varietà sono appiattite su pochi numeri per convenienze economiche. Dettano legge persino i metodi di confezionamento dei prodotti. Per esempio, alcune specie di ortaggi sono scomparse perché non erano funzionali ai tipi di imballaggio. Così rischia di sparire tutto». Non a caso la Fao ha già cantato il de profundis a un buon 80 per cento di varietà vegetali. Marco, nel suo microcosmo di montagna, si propone invece come coltivatore-custode della biodiversità.