Udine: strage del 23 dicembre 1998, il movente è ancora ignoto

di LUANA DE FRANCISCO

 
La bomba che, il 23 dicembre 1998, in viale Ungheria, uccise tre poliziotti della Squadra volante fu collocata dal gruppo degli albanesi e dei loro più stretti accoliti italiani che, in quel periodo, aveva il controllo del quartiere. «Soltanto quel gruppo, infatti, aveva la capacità criminale, la freddezza, l’abitudine all’uso più bestiale della violenza e la facilità ad approvigionarsi di ordigni, per rendersi ideatore ed esecutore di quel gesto». Perchè l’abbia piazzata e quale fosse l’obiettivo, però, resta un mistero. Nelle motivazioni della sentenza con la quale, due anni fa, la Corte d’appello di Trieste, ribaltando il verdetto di assoluzione di primo grado, ha condannato all’ergastolo due dei quattro imputati  per omicidio plurimo pluriaggravato, sul movente permangono dubbi «insuperati e insuperabili». Impossibile, dunque, parlare di strage. E altrettanto aleatorio sostenere che nel mirino ci fossero proprio quegli agenti.
Una montagna di atti. Articolato tra la ricostruzione dei fatti, la trascrizioni degli interrogatori e delle intercettazioni più significativi, le ipotesi accusatorie e le conclusioni dei giudici, il documento nel quale sono state raccolte le motivazioni dei giudici che, il 5 dicembre 2008, dopo quattro giorni di camera di consiglio, pronunciarono la sentenza di secondo grado, è lungo 669 pagine. Un lavoro certosino, quello che il presidente di sezione della Corte d’appello di Trieste, Oliviero Drigani, ha depositato in questi giorni e che riassume 12 anni di indagini, per un totale di oltre 40 mila pagine di atti processuali.
L’associazione mafiosa. Il ragionamento dei giudici parte da due “dati di fatto”. Il primo riguarda il numero delle persone presenti sul luogo del delitto: tre quelle che operarono materialmente sulla serranda del negozio di telefonia “Centroautoradio” di viale Ungheria e una quarta in posizione di “palo” sul marciapiede opposto. Il secondo dato certo, frutto di un’approfondita disquisizione di carattere giuridico, si riferisce alla sussistenza dell’associazione per delinquere di stampo mafioso. Da qui, le prime conclusioni. E cioè che «nessun altro al di fuori del gruppo degli albanesi e dei loro più stretti accoliti italiani può avere collocato l’ordigno». E da qui, anche, l’individuazione dei colpevoli, «al di là di ogni ragionevole dubbio», in Saimir Sadria, Ilir Mihasi (entrambi latitanti) e Giuseppe Campese (nel frattempo ucciso nel proprio paese d’origine, in Calabria).
I punti “chiave”. Diversi gli elementi che hanno contribuito a imprimere una svolta alla prospettiva che della vicenda aveva dato la Corte d’assise di Udine. A cominciare dalle dichiarazioni rese dall’indagato albanese Kreshnik Celaj, nel corso degli interrogatori del marzo ’99, davanti al pm Luigi Leghissa. Dichiarazioni relative alle conversazioni che l’uomo aveva avuto con i due connazionali, operanti come lui nel mondo della prostituzione udinese: erano stati loro a informarlo che, di lì a una decina di giorni, «sui giornali sarebbe stato scritto qualcosa di importante». Salvo poi, nel 2001, ritrattare ogni cosa e affievolire così il peso della sua ricostruzione. Non meno significativa, secondo i giudici d’appello, l’intercettazione della telefonata intercorsa tra Campese e una sua prostituta il 13 febbraio 1999: peccando d’ingenuità, la donna aveva fatto riferimento ai due candelotti esplosivi (poi rivelatisi innocui) rinvenuti quello stesso giorno in un’auto della “Battel Franco” di Basaldella, a poca distanza dal negozio di telefonia “Aladin” di Paolo Albertini, titolare del “Centroautoradio” di viale Ungheria. Rispetto ai colleghi di primo grado, infine, i giudici triestini hanno ritenuto di valorizzare come fondamentale riscontro probatorio anche il colloquio intercorso la notte del 5 febbraio 1999, a bordo di una Mercedes e, in particolare, la frase “ammazzati tre poliziotti per lui”, pronunciata da una voce che la successiva perizia fonica aveva permesso di attribuire a Mihasi.
Colpevoli e non. Se per Sadria, Mihasi e Campese (quest’ultimo avendo egli stesso «disvelato, seppure indirettamente, il proprio ruolo nella vicenda»), il collegio ha dunque ritenuto provata dall’insieme delle risultanze istruttorie la colpevolezza, nessuna penale responsabilità, invece, è risultata concretamente ravvisabile per gli altri due imputati, il barese Nicola Fascicolo e l’ucraina Tatiana Andreicik. Entrambi assolti, come già in primo grado, dall’accusa di concorso in omicidio plurimo ed entrambi usciti dal secondo grado con una riduzione della pena, per il reato di associazione di stampo mafioso.
La verità di Tatiana. Scartata per insufficienza e inadeguatezza delle prove l’ipotesi che il quarto “uomo” presente come palo fosse la Andreicik, quella della giovane prostituta dell’est, secondo i giudici, resta comunque la figura più controversa della vicenda. Perchè, come riportato nelle motivazioni, lei «sa perfettamente chi, come e perchè quell’ordigno è stato collocato».
Il giallo del movente. Pur riconoscendo al pm che, dalla Direzione distrettuale antimafia di Trieste, ha condotto l’inchiesta, Raffaele Tito, l’intelligenza investigativa e la tenacia che hanno permesso di mettere all’angolo la gang albanese, la Corte presieduta dal dottor Drigani ha smontato i due possibili moventi che il magistrato aveva indicato nella volontà di colpire e intimidire la polizia, come forma di ritorsione ai continui controlli effettuati sulle prostitute, oppure, singolarmente Giuseppe Zanier e Paolo Zamparo – vittime, insieme a Adriano Ruttar, dell’attentato –, per i loro comportamenti nei confronti dell’associazione. Tesi poco convincenti o addirittura irrazionali, secondo i giudici. All’epoca – ricordano nelle motivazioni – Udine rappresentava per prostitute e sfruttatori «un vero e proprio “Paese di Bengodi”, nel cui ambito i controlli di polizia non costituivano assolutamente un concreto fattore di deterrenza e contrasto alla criminalità». Difficile, quindi, immaginare un’operazione stragista, con tutti i rischi che ciò avrebbe comportato – compreso quello di alterare uno “status quo” che lasciava ampi margini di movimento –, nei confronti della Polizia, in quanto istituzione. Lo stesso dicasi, nel caso in cui il target fosse stato un singolo agente.
Imboscata, non strage. Accolta, invece, la tesi che vede nella bomba un «oggettivo connotato di trappola». Considerate le modalità del posizionamento, dell’occultamento e del meccanismo d’innesco, oltre che l’accensione del fuoco su un lato della vetrina, per distogliere l’attenzione dalla bomba, la Corte ha convenuto con il pm nell’attribuire all’ordigno un connotato d’insidiosità. Ma questo, per i giudici, non basta a parlare di strage, proprio perchè manca la prova del dolo specifico. Mancano, cioè, movente e obiettivi. Da qui, la derubricazione nel reato di omicidio plurimo pluriaggravato.
L’ultima anomalia. Rinunciando ad avventurarsi in improbabili voli pindarici, i giudici lasciano in sospeso una terza ipotesi: quella che vedrebbe l’obiettivo nel titolare del negozio, Paolo Albertini. Non foss’altro, perchè la bomba fu piazzata proprio sulle sue vetrine, comunque poste a una certa distanza dalla caserma della polizia di viale Trieste. Resta senza spiegazione, infatti, l’«anomala reazione» che l’uomo, scampato alla strage, ebbe in ospedale quando avvertì i propri interlocutori della presenza nella stanza di alcune microspie. Nessun profilo di sospetto, tuttavia, emerse dalle indagini svolte sulle sue attività economiche e finanziarie.